La voce Delle Voci

2022-11-07 17:12:18 By : Ms. Aileen Lee

Ho, come la quasi totalità del genere umano, i cinque sensi che la natura ci ha dotato per la percezione dell’ ‘altro’ che include mare, monti, terra coltivata, deserti, ghiacciai, minerali, piante, fiori ed erbe, acque sorgive, fiumi e laghi, vulcani, grotte, alberi, insetti, uccelli, felini e mammiferi, razze, etnie, culture, tradizioni, arti, mestieri, usi e costumi, egoismi e generosità, religioni e ateismo, isole, atolli, metropoli e borgate, musica, gioie, dolori, emozioni, lacrime e sangue, malattie, salute, cinofilia, cinema, drammaturgia, astrofisica, pesca, caccia, gastronomia, scienza e cultura generale, passioni e apatia, senescenza, immaturità, scaltrezza e ingenuità, timidezza, sfrontatezza, poetica, infingardaggine, utopia e verosimiglianza, inni e romanze, energia, inerzia, fortuna, iella, erculea bellezza, incolpevoli deformità, sussurri e grida, desideri, rinunce, promesse, tradimenti, maledizioni, rancori, pentimenti, preghiere e blasfemia, storiografia, voluttà, ossessioni, bon ton, malagrazia, strafottenza, umiltà, gradimento, riluttanza, impellenza, sterilità, procacità, veemenza, moderazione, benevolenza, diversità, opulenza, magia, stregonerie, opacità, astinenza, sobrietà, nebulosità, ottusità, creatività, empatia e respingimenti, trasparenza, opposizione, rabbia, ilarità, magnificenza, chapeau, metodologia, moderazione, anarchia, autarchia, obesità, deformazione, complottismo, gravità, sospensione, estensione, propensione, avversione, convinzione, apprensione, vivisezione, benedizione, divisione, ottimizzazione, obnubilazione, oblazione, invenzione, produzione, ostentazione, inibizione…

I cinque sensi e io. Ho un squilibrato mix di miopiastigmatismopresbiopia e odio gli occhiali per ‘da vicino’, ‘da lontano, ‘da correzione antistigmatica. Di un padre dai colori somatici chiari ho ereditato pupille verdazzurro, che il sole da vacanza al mare o in montagna ferisce, come mostra con un visore integrato da microscopio un maligno oculista con tendenza a infondere paura in soggetti già di per sé iper timorosi. Ma della vista che so?

Vista è percezione con gli occhi di stimoli luminosi, del colore, di misure e posizione del mondo esterno. Platone: “La vista dipende dalla caratteristica dello sguardo di sprigionare fuoco che incontra la luce del sole, la sua forza omogenea”. Euclide e poi Tolomeo: “Gli occhi emettono raggi che catturano le immagini”. Aristotele: “La vista è generata dal diaphanes e il colore è fusione tra bianco e oscurità”. Si sono cimentati con il ‘cos’è la vista’ anche Epicuro, Lucrezio, Plotino. La ‘visione’, per il cristianesimo, è illuminazione divina per comprendere le verità supreme (ovvero i dogmi). Più tardi ne hanno dissertato Grossatesta e Alhazen , Galeno, Ruggero Bacone e Peckman, Maurolico, Patrizi, l’immenso Leonardo, Goethe. Chissà se ne è consapevole la miss in camice bianco che in un noto showroom dell’ottica mi propina tre paia di occhiali. Alla prova di lettura, vista lunga e imperfezioni da stigmatismo, si dimostrano buoni come rifiuti per la differenziata. Si sbizzarrisce la fantasia degli addetti ai lavori. Della vista offuscata, di miopia, di avversione alla luce e di occhi gonfi, così racconta la medicina cinese, sono responsabili le malattie del fegato. Quasi dimenticavo, mi affligge anche il disturbo del daltonismo, ma inorgoglisco nel sapere che in un solo secondo i miei occhi catturano da 50 a 60 immagini. Meglio di me fanno libellule, ragni, serpenti, felini, rapaci, il gheppio, la cavalletta, lo squalo bianco (e allora: che illogica presunzione è la nostra di umani?). Non trovo nulla, navigando in Google Chrome, sulla qualità dello sguardo appassionato di Laura, fanciulla della mia prima esperienza sentimentale di tredicenne e nulla sullo sguardo arcigno di mio padre ‘all’antica’, quando ha scoperto tra i mei libri un noto saggio sulla sessualità firmato da Freud.

Non ho avuto alcun bisogno di informarmi sul potere suggestivo di Clara, al ritorno da un concerto di Vasco Rossi, allorché mi ha ‘chiesto con occhi parlanti “Entra, stasera non lasciarmi sola’. ‘Occhi specchio dell’anima?’ Penso ad altro. Dice Ericksson, guro dell’avanzatissima scuola Usa di Palo Alto, che si capisce di più leggendo le comunicazioni non verbali rispetto a dieci sedute psicanalitiche. Per esempio: se Anna vuole scoprire possibili peccati di ‘corna’ di Arturo, gli può chiedere apertamente “Mi tradisci?”. Se la risposta è “No”, ma in quel momento si dilatano le sue pupille, Arturo sta mentendo. Impazzisco per i cosiddetti occhi a mandorla, per il mistero che nascondono, aborro gli sguardi sfuggenti, sintomo di slealtà. Invidio la ‘lungimiranza’ degli occhi di lince e la spazialità degli astronauti a cui è dato ‘leggere’ la Terra come noi nella notte di San Lorenzo ci emozioniamo alla vista del cielo stellato.

Vorrei piangere ad ogni immagine commovente proposta da cinema e televisione, da racconti coinvolgenti degli scrittori che preferisco, ma non va così. Non me lo spiego: l’anima sarebbe portata a risposte di occhi gonfi, e invece che rabbia per le guance rigate delle attrici che piangono artificialmente. A mezzo del tour d’arte, che lo porta dalla Spagna a Pechino, in sosta al Museo Pan, nella via napoletana ‘Dei Mille’, scopro perché i miei disegni, non imputabili di plagio, ricordano a chi li giudica l’affascinante creatività di Mirò. Il feeling con il gigante spagnolo è un chiaro esempio di tele-artisticità che ha fatto dire di pittori ‘minori’ “è di scuola raffaelliana, giottesca, eccetera”. Sotto l’arco, che introduce allo spazio antistante il gotico della sontuosa chiesa napoletana di Santa Chiara, una giovane arpista suona ‘L’aria sulla quarta corda’. È magra da denutrizione, occhiaie profonde raccontano stenti e notti insonni. In terra, nel basco di feltro verde, non ha più di quattro monete, ma anche una banconota di dieci euro, posata con delicatezza da un turista giapponese. A pochi metri c’è il portoncino serrato del largo corridoio al livello della piazza del Gesù, che un fervente cattolico ha trasformato per anni in mensa per nuovi e storici poveri, prima di chiudere l’iniziativa umanitaria, impegnato a contrastare una brutta malattia. Mi tornano in mente la figura, in attesa di accedere alla mensa, di una donna di nobile aspetto, portamento dovuto sicuramente a un passato socialmente elevato e i suoi occhi, occhi profondamente velati di tristezza da solitudine, bontà, riconoscenza per il benefattore dei poveri. Al suo fianco il volto di chi dimostra novant’anni senza aver compiuto il settantesimo, perché scavato da sofferenza e sgarbi della vita. ‘Report’, coraggioso giornalismo di inchiesta, esemplifica con documenti, interviste, notizie d’archivio, l’indecente omertà egiziana con i responsabili delle torture e dell’assassinio di Regeni. Gli occhi del padre e della madre del giovane ricercatore sono rossi di pianto, severi, accusatori. L’ultimo pensiero è per il senso negato a chi nasce senza la vista o a chi la perde. Provo a bendarmi, sopporto la momentanea cecità per pochi minuti. Fisso a lungo la mia immagine ripresa dalla microcamera dello smartphone e mando in archivio le riflessioni sulla vista, sui miei occhi, che mi regalano il piacere di leggere, guardare i campionati del mondo di basket, il volto generosamente intenso di Gloria, che a cinquant’anni è ancora bella in modo seducente. (Continua)

Non riesco a trattenere il pur lieve spasmo dei polpacci, che provoca un tremito continuo. Provo a fermarlo con la tecnica a cui ha mi ha avvicinato Claudio, magico psicoterapeuta. A partire dalle dita dei piedi suggerisco a tutta la muscolatura, che ho imparato a selezionare una ad una, scoprendo che sono in un numero incredibilmente alto. Il compito è: risalire lentamente fino alle caviglie per avvicinare la zona in tensione e liberare i polpacci dai ‘crampi’.

Guelfo Ostuni, psicanalista amico di famiglia, mi distoglie con la richiesta di informarlo sui giorni intercorsi dalla seduta di una settimana prima. Quasi non ho capito cosa vuole sapere, impegnato a controllare i movimenti delle gambe e Guelfo se ne rende conto.

“Ti ho chiesto come ti è andata dopo l’incontro di sette gironi fa.

“Bene e male. Ho di nuovo litigato violentemente con mia sorella e senza un vero motivo. Basta un niente per farmi perdere il controllo e la conseguenza è la solita ricaduta in depressione”.

“Riprendiamo di dove ci siamo lasciati. Hai da poco oltrepassato la condizione che ispirò Paul Nizan a iniziare uno dei suoi libri di successo con la frase ‘Ho vent’anni e non permetto a nessuno di dire che è una bella età’. Da quanto mi hai finora raccontato penso che una delle cause dei tuoi momenti di nervosismo incontrollato è sintomo di una patologia per nulla rara della tua età. Il ‘non futuro’ provoca tensioni abnormi e reazioni opposte di sfinimento e apatia, prologo di stati depressivi come quelli che mi racconti da quando abbiamo iniziato i nostri incontri. Se questo è il problema puoi immaginare che la soluzione sta nella tua testa, o meglio nell’operazione di rivisitare del percorso compiuto finora, per reindirizzarlo”.

“E ti sembra poco? Per cominciare, che fai tutto il giorno…so che dopo la maturità non ne hai voluto sapere di università. A tuo padre avrebbe fatto piacere che ti laureassi in economia aziendale per cogestire l’impero di famiglia. Non credi che sia comunque il momento di integrare la tua vita di scapolo d’oro?

“E perché? Mio padre, lo ha detto lei, ha messo su un vero impero e non ritiene di sicuro di condividerlo, mi creda”

Mi chiamo Massimiliano, nome altisonante che devo all’ambizione di mia madre, dipendente seriale dei rotocalchi che prosperano con la cronaca e il gossip dei personaggi reali, prima fra tutte la stirpe di Elisabetta. “Massimiliano”, mi ha confidato quando le ho chiesto ‘perché?’ perché “mi ricorda il fasto degli Asburgo”

Fasto, Asburgo? Ne ho fatte di tutti i colori. Avevo sette anni, eravamo in vacanza a Lacco Ameno di Ischia nella villa che l’archistar Giovannoni ha disegnato su nostra commissione. Insofferente alla disciplina paterna, agli orari prefissati per ogni fase della giornata, ho profittato di un momento di distrazione familiare e mi sono incamminato da incosciente in direzione del monte Epomeo, che da sempre mi è apparso avvolto dalla nebbia, cioè dal mistero. Con gli euro sfilati dal borsellino di mia madre ho chiesto all’incredulo autista di una motoretta ‘Ape’ di portarmi a circa un chilometro dal sentiero che porta in cima al monte.

“Ma tuo padre, tua madre, sanno che stai facendo?”

“Devo raggiungere proprio loro, nella nostra villa. Oggi sono stato a casa di mia zia a Lacco a giocare con i mei cugini”

Niente da dire, discolo lo ero e come, ma ero anche un precoce e forse un credibile bugiardo. Indico al tassista un punto dove, mentendo, assicuro che c’è la villa, alle spalle di un fitto bosco di pini marini. La stradina di campagna rasenta tratti che si restringono pericolosamente e all’imbrunire si dimostra rischioso percorrerla senza grande attenzione. La vetta è più vicina e non è nascosta da nuvole. L’eccitazione di esserci, dopo averlo immaginato cento volte, mi fa il brutto tiro di abbassare la soglia dell’attenzione. Il piede della gamba più vicina al ciglio della stradina trova il vuoto sotto di sé e precipito per una decina di metri. Mi ferma la sporgenza piatta della roccia e urlo di dolore per la frattura del braccio con cui ho provato ad attutire l’impatto. Capisco che mi è impossibile risalire. Non ci sono appigli e la frattura non mi consente l’uso delle due braccia.

Sarei rimasto lì chissà fino a quando se il tassista, ripensando all’anomalo passeggero, non avesse sospettato di un ragazzino troppo intraprendente. Informa i carabinieri, che nel frattempo sono impegnati nella mia ricerca, sollecitati dai miei genitori.

Sento il parlottare di qualcuno che passa all’altezza di dove mi trovo e gridò “aiuto” con quanta voce mi esce dalla gola.

PARIS, FRANCE – MAY 27: Dominic Thiem of Austria serves during his mens singles first round match against Tommy Paul of The United States during Day two of the 2019 French Open at Roland Garros on May 27, 2019 in Paris, France. (Photo by Clive Brunskill/Getty Images)

Ho appena incontrato sulla terra rossa del circolo del Tennis il maestro che all’età di 28 anni ha conosciuto l’emozione della maglia con la scritta Italia nel torneo di accesso alla serie A di Coppa Davis, anche se come riserva. Quando lo sfido al meglio dei tre set, con trenta punti di vantaggio per ogni game, so già che farà in modo di farmene vincere due, a beneficio della mia vanità e del racconto urbi et orbi della mia ‘vittoria sul maestro’.

Resto a mangiare al ristorante del circolo, dove lo chef De Gregorio mi riserva un trattamento speciale in cambio di mance da nababbo che lascio con il conto. Mi raggiunge Gualtiero Di Martino. Di lui so che ha messo su una fortuna, non dovuta attività professionali e neppure a un’eredità milionaria. Peppe, storico cameriere del ristorante, che ha fatto da tramite per l’incontro, non mi aveva informato con le cautele del caso.

“Dottò (mi chiama così, pur sapendo che non sono laureato), Di Martino è come la gallina dalle uova d’oro. Addò mette ’e mane, so denare”

“E dove mette le mani?”

“E tu con questo individuo mi fai incontrare?”

“E ve faccio nu grande favore, credete a me”

A vestire Gualtiero dev’essere the number one della moda maschile:

“Salve, lieto di conoscervi. Godiamoci prima lo spaghetto all’astice di De Gregorio e dopo gli affari”

Il ragionamento, dallo spregiudicato punto di vista dell’affarista Di Martino non fa una piega. Informato in dettaglio della situazione patrimoniale della mia mia famiglia mi propone spiega:

“Giovanotto, c’è in gioco un ‘business’ milionario, molto milionario, un investimento che moltiplica il capitale di partenza. Te lo cedo in cambio del dieci per cento del profitto. Io ho tutto il mio capitale investito contemporaneamente in operazioni analoghe”

“Ho fatto preparare dai miei consulenti un progetto d’acquisto del 51 per cento delle azioni di una banca lussemburghese a cui una potente multinazionale cinese intende affidare colossali profitti per renderli invisibile al fisco di Pechino. Per concludere l’operazione i cinesi chiedono che la banca affidataria dimostri di gestire un patrimonio di almeno tre milioni di dollari e lei ne dispone di due. I lussemburghesi calcolano che la gestione di miliardi di dollari e il loro utilizzo in operazioni con profitti stratosferici già programmati rende possibile restituire il ‘prestito’ triplicato.

“Mi dia un paio di giorni per risponderle. Mio padre è all’estero e torna domani”.

“Ma non oltre. I cinesi e la banca hanno urgenza di concludere in fretta il ‘contratto’”.

Accidenti se è vero. Credi di conoscere tuo padre e non è così. Ho immaginato per un attimo che dopo avergli riferito la proposta, avrebbe reagito mandandomi al quel paese, sdegnato dalla mia proposta non proprio ‘trasparente’. E invece, le due mani sulle mie spalle, con un largo sorriso.

“E chi se l’aspettava. Adesso sì che ti riconosco come figlio e quasi, quasi, giustifico anche l’ampolloso nome voluto da tua madre. Ora dimmi…i dettagli…”

“Buongiorno dottore, sono venuto all’incontro programmato, ma solo per salutarla. Ultima seduta”

“Sicuro? Ti sei liberato in una settimana di problemi complessi, dell’assillo per lo zero del tuo futuro, Possibile è una?”

“Mi creda, svolta difficile da spiegare. So che un uomo come lei e la sua razionalità professionale, rifiutano l’aleatorietà del ‘caso’, le ‘sorprese’ del destino. Allora, le lasci a noi comuni mortali”.

“Maestro, basta con la generosa finzione, mi basta giocare con un ex campione e perdere com’è normale che sia per un dilettante, per quanto bravo come me. Ora mi scusi, chiamo lo chef sul cellulare, per sapere se mi prepara il solito spaghetto all’astice”

In un freddo mattino, quasi unico nel settembre della Sardegna, Bartolomeo, 12 anni, consuma il suo parco pasto delle dodici, l’ora ricavata a vista, osservando l’ombra proiettata sul prato rigoglioso da una casupola adibita a deposito di attrezzi agricoli. Da nordest vengono giù folate di tramontana, a stento riparate dalla sciarpa in lana grezza, cucita dalla nonna ultra novantenne, che diceva un giorno sì, uno no, al nipote “si campa molto e bene se non si smette mai di tenere le mani e la testa impegnate”. Per Meo il solito pane raffermo, il solito pezzo di pecorino stagionato, una mela colta il giorno prima dalla madre nella poca, ma ben lavorata terra di proprietà

Un colpo di vento, venuto su con un vortice burrascoso, fa volare a un metro di distanza da Bartolomeo, da Meo Urciuoli, una mezza pagina di cronaca sportiva della ‘Nuova Sardegna’, che propone una gigantografia di Gigi Riva sotto il titolo “I ‘sessanta’ di un mito”. Chissà cosa raccontano quelle righe: il ragazzo-pastore la scuola l’ha vista solo di lontano e di lontano anche gli scolari, accompagnati da madri e padri. Non sa perché mette quel frammento di giornale in tasca, ma è certo che si ripromette di provare a decifrarlo. Non è semplice, ma non si arrende. In casa, insieme a qualche vecchio periodico della Confagricoltura, ricorda di aver visto i libri di scuola del fratello che ha studiato fino a prendere la licenza media e chiede al padre ce n’è anche uno che insegni a leggere. Nello sdrucito testo delle elementari figure di oggetti familiari accompagnano le lettere dell’alfabeto e Bartolomeo impara che l’oca si scrive con la o, la c e la a, come gli spiega il fratello. Sono le stesse che ritrova nelle righe del giornale, ma ancora senza legarle allo scritto. Non fa difetto la tenacia al pastorello e giorno dopo giorno i progressi che compie confermano una sua spiccata disposizione all’apprendimento. Quando la padronanza della lettura è compiuta, nel poco tempo che gli concede il governo delle pecore, frequenta la piccola biblioteca comunale, dove la responsabile, una donna che non si è maritata, gli dedica tutta l’esperienza acquisita in più di trenta anni: “Comincia con i libri più adatti alla tua età. Il ‘Cuore’ di De Amicis, ‘’ ragazzi della via Pal” di Molnar. Bartolomeo li divora e la scelta di come farlo progredire impegna la bibliotecaria, che asseconda la crescita ‘culturale’ del suo ‘cliente’. La madre lo segue in questo percorso inaspettato, anomalo per la condizione sociale di modesta ambulante. Ricorda che nel paese vicino vive un docente di materie letterarie che ha insegnato al liceo classico del capoluogo, ora in pensione. A Giacinto Orlandi non sembra vero conoscere un ragazzo che dai primi dialoghi intuisce dotato come nessun altro suo studente per muoversi con grande proprietà nel complesso territorio della lingua italiana: “Signora, questo ragazzo è nato per lo studio e merita il tentativo di fargli recuperare il tempo è perduto. Sono disposto a seguirlo e presentarlo agli esami di maturità da privatista. Lo faccio gratis, l’impegno mi riporterà al tempo dell’insegnamento attivo, che mi manca”.

In un cantuccio dell’Aula Magna i genitori di Bartolomeo osservano con trepidazione il figlio che discute la tesi di laurea in filologia moderna: “Congratulazioni, centodieci e lode”. I primi complimenti sono della relatrice, ma si associa l’intero collegio dei docenti.

La carriera di prof segue il percorso più breve permesso dall’iter delle norme per assumere i ruoli di associato e poi di ordinario.

Per decenni il celebre motto “Vedi Napoli e poi muori” ha subìto critiche e contestazioni dei non partenopei. Il capoluogo lombardo ha dedicato loro perfino una la risposta in musica, con una delle rare melodie meneghine. “…Canten tucc lontan de Napoli se moeur, ma po’ i vegnen chi a Milan” (‘cantano lontano da Napoli si muore, ma poi vengono a Milano’). Da alcuni anni in qua il ‘nordismo’ si è redento, affascinato da una città unica al mondo. In parallelo si è fatto strada, come una vera, intima rivoluzione, il pentimento dei tanti napoletani che si sono cimentati per anni nell’incomprensibile esercizio dell’auto denigrazione, del perverso appiattimento sulla cattiva letteratura, che media e non solo loro, hanno alimentato a dismisura. La lodevole minoranza che ha tenacemente contrastato i detrattori infarciti di luoghi comuni, strizzate d’occhio al presunto dominio del folclore, di letture malevole delle negatività insite in ogni metropoli, ha raccontato la Napoli delle eccellenze negli ambiti della musica, del cinema, del giornalismo non prevenuto, ha dato vita a un’antologia virtuale delle eccellenze ed è infine riuscita a far breccia nel blocco granitico dei mancati riconoscimenti. L’operazione rivalsa gode di respiro internazionale e l’ante-Covid lo ha testimoniato con la più convincente cartina di tornasole, con il racconto della città invasa dal turismo, l’esaurito di alberghi, B&B, ristoranti, Musei e Gallerie. Svaniti nel nulla i problemi di Napoli? Assolutamente no. Le ragioni dell’innamoramento collettivo non cancellano i consolidati problemi del trasporto, dell’igiene urbana, della microcriminalità: l’inedito contrasto a tutto questo è nell’insieme di titoli del saggio “Perché amo Napoli”, tutto da scrivere. Con spirito minimalista, ma di alto profilo, l’incipit del racconto che segue non si avvale delle lodi consolidate per il patrimonio ambientale e culturale di Napoli. Aggancia invece la contemporaneità della cronaca per motivare un benemerito “Chapeau, Napoli ti amo”. Prova

C’erano una volta il ‘Caffè sospeso’, poi la ‘pizza in sospeso’ e i cesti del ‘Se non hai prendi, se hai dona’, il ‘paniere della solidarietà’ calato dai balconi, pieno di cibo per chi non ha da mangiare: già, e la mente? Il suo nutrimento? Napoli dice di sì anche questo, perché se non hai come nutrire il corpo, figuriamoci se puoi alimentare l’intelligenza. E allora? Allora il ‘libro sospeso’. Succede a Scampia, uno dei rioni periferici di Napoli, che a dispetto della marginalità progettuale con cui è nato, ora prova a inventare quanto gli è stato negato. Rosario Esposito La Rossa, nominato Cavaliere della Repubblica da Mattarella, titolare di un laboratorio sociale dal significativo titolo ‘Scugnizzeria’ dove si svolgono attività artistiche e non solo: “Vieni in libreria, compri il tuo volume, poi ne scegli un altro per un ragazzo povero del quartiere e glielo lasci alla cassa. Decidono i librai a chi darlo, conoscono le storie di tutti. Oppure lasci una piccola cifra e il ragazzo privo di mezzi sceglierà un libro, che gli sarà consegnato come un regalo della libreria”. (In due anni, ne sono stati donati 800). “A Scampia, mancava una libreria da 40 anni, ora c’è ed è l’epicentro di una nuova socialità. Scampia, purtroppo è assurta a notorietà dispregiativa con le storie di ‘Gomorra’, ha livelli drammatici di disoccupazione, giovanile, povertà, evasione scolastica. L’idea di Scugnizzeria, del ‘libro sospeso’, è solo un corollario del teorema che progetta di ‘normalizzare’ un pezzo di città da amare come Mergellina o Posillipo sullo sfondo di invenzioni allusive: la ‘Piazza dello spaccio dei libri’, la ‘letteratura stupefacente’, i ‘pizzini della legalità’ che esorcizzano il negativo della criminalità.

C’è una bella, vera storia nella magia miracolosa della cultura che esporta progresso in ogni step della vita sociale e ovunque. Napoli, come altre mille realtà non solo italiane, ha vissuto epoche di intenso inurbamento, che hanno reso il tessuto esistente incompatibile con la crescita esponenziale degli abitanti. L’esigenza di espansione era già avvertita nell’Ottocento e si è concretizzata con nuovi insediamenti periferici a est e ovest della città. Un picco del fenomeno ha coinciso con l’impellenza di compensare la distruzione subita con i bombardamenti, della seconda guerra mondiale. Il comparto dell’edilizia è noto come volano fondamentale dell’intraprendenza imprenditoriale. Indicazioni dotte, di famosi urbanisti, inducono a trasferirla ai margini del già edificato. Imprevista, ma prevedibile è la conseguenza della deportazione oltre la storica cintura urbana della popolazione marginale. Nasce a metà degli anni ’50 il Rione Traiano, e ai sociologi progressisti si annuncia come antesignano dei ‘ghetti’ per emarginati, luoghi di sovraffollamento privi di alternative al connotato di dormitori, progressivamente territorio fertile per l’occupazione di gang malavitose e clan camorristici, fino a degradare definitivamente.

Antonuccio, Peppino, Maria, Gaetano: sono i Montanaro di Cercola, ‘espatriati’ a Napoli per mettere su una mini attività di ambulantato e vendere quanto produce la campagna loro e dei parenti che la coltivano. Antonuccio è il secondo dei due figli che Maria ha partorito quando ancora non si era trasferita con il marito. Indisciplinato, ribelle, destinato a deviazioni di comportamento, indotte dalle cattive compagnie: la madre è rassegnata. Le ha provate tutte per costringere a studiare con l’obiettivo di sottrarlo allo squallore di Scampia, raccontata dai media, film, fiction in serie e libri che leggono in chiave univoca la realtà del secondo grande ghetto napoletano, progettato per emulare con le sue vele, la tipologia edilizia altrove di alto livello, per esempio quella del lungo Senna. A Scampia è ignoto il principio della promiscuità che genera livellamenti in alto della convivenza tra soggetti sociali tra loro molto distanti. In altri luoghi del Mondo e specialmente nei Paesi evoluti del Nordeuropa l’orientamento è abituale normalità la presenza nello stesso condominio di professionisti, operai, domestici e ricchi imprenditori.

A Scampia c’è anche tanta brava gente e si manifestano fermenti di riscatto dalla marginalità, anche se è prevalente l’uso del territorio della criminalità, che fa agevolmente proseliti, con il suo potenziale di coercizione esercitato, senza limiti di risorse finanziarie.

Antonuccio cade nella rete dei procacciatori di pusher e finisce a Nisida nell’Istituto di Rieducazione Giovanile. Ne esce con le ossa rotte e lo smarrimento di tanti come lui, che sanno di pagare la iella di vivere in un quartiere a rischio. Il ritorno a casa gli riserva la sorpresa di eventi alla lunga destinati ad ammortizzare l’handicap di partenza del ‘ghetto’. Va giù una vela, ridotta nel tempo a scheletro malandato, a discarica, per colpa di clan in guerra, a luogo di perdizione. Inaspettato appare al ragazzo dei Montanaro l’insegna ‘Scugnizzeria” e sulla porta c’è Rosario La Rossa, l’incredibile, coraggioso libraio editore che prova a contrastare la lunga linea del degrado con gli strumenti primari della cultura. Conosce la storia di Antonuccio, l’ha raccontata la madre, che gli ha chiesto di aiutarlo a ‘cambiare strada’.

“Bentornato. So che poi a scuola, almeno per il tempo di imparare a leggere e scrivere, ci sei andato. Entra ho qualcosa per te. Un regalo. Leggi questo libro, è la storia di un giornalista ucciso dalla mafia per aver denunciato a gran voce il cancro della sua Sicilia. Quando avrai finito di leggerlo vieni in libreria, ne parliamo un po’”.

Un libro non fa miracoli, ma può incidere nella coscienza di chi ne condivide il contenuto, benché condizionato da condizioni ambientali di segno opposto.

Antonuccio ritaglia l’articolo del quotidiano che riporta l’appello del governo per l’assunzione straordinaria di infermieri da formare con corsi accelerati, per immetterli nell’organico degli ospedali carenti di personale sanitario per i reparti di terapia intensiva, dove si curano i pazienti gravi colpiti dal Covid-19.

La telefonata arriva sul cellulare del padre. È del sottosegretario alla Sanità. “Sono addolorato. Suo figlio è stato contagiato da coronavirus. I Medici dell’ospedale dove ha lavorato per salvare tante vite ha fatto l’impossibile per aver ragione del virus. Antonuccio non ce l’ha fatta a vincere l’infezione. Le porgo le mie e le condoglianze del governo”.

parole e parole e parole, di seguito, senza o con molto senso, sparse nell’ arbitrio di una punteggiatura fuori sintassi, di pensieri sovrapposti in piena, cosciente anarchia, fantasia e realtà senza segni di separazione, andate e ritorni sconnessi, congiunzioni spericolate…eccetera

Non riesco a rendere la sofisticata personalità di un sorriso speciale, al tempo stesso contenuto, ma invitante, lieve ma intenso, intimo e comunicativo, esplicito e tutto interno all’anima che indaga gli occhi altrui e sussurra parole tonde, in piena sincerità e Lena se ne sta lì senza percepire alcunché delle vibrazioni di cui si alimenta il desiderio di andare oltre l’esplicito, l’evidente, la complessità delle comunicazioni non verbali, indago il perché dell’impercettibile di una palpebra che cala di un millimetro, forse due sulla pupilla di un verde smeraldo custodito nella grotta dell’isola ‘Holky’, punto perso nei mari del Pacifico, quasi centrale nella sua immensità, il perché non svelato, da interrogare al pari di altri cento messaggi minimi indecifrati, i perché tormentati di notti insonni non sprecate, la testa volta a ‘osservare’ con gli occhi serrati, in dettaglio, ogni cosa della camera riscaldata dal corpo esposto in eccesso al sole di Luglio e a destra sulla sedia anni ’50 sotto plexiglass l’inconsueta immagine di Nadia, il biondo della testa simile alle foglie sbiadite di una esotica januyara, le labbra troppo rosse, la collana del senegalese Hammuth in cambio di dieci euro e poco più in alto l’osè di Riccardo, spergiuro fotografo per aver raccontato la casualità dello scatto dell’amplesso di due corpi statuari incollati alla roccia a picco sul mare e in alto il disegno di Bruno Caruso, la sua intuizione iconografica della fatica snervante alla catena di montaggio, oltre, a destra, la vecchia ‘Singer’, riconvertita a sostegno del sontuoso Pulcinella degli Scarabattola, famiglia di scultori in comunità parenterale e sul rettangolo azionato dai piedi le nike bianche-blu non hanno ancora contaminate dalla terra rossa del tennis club Posillipo e proprio di fronte il mobile in esclusiva della mia Maria, tre boccette di profumo e l’immancabile Chanel number five, lo scrigno impossibile da chiudere, perché colmo di orologi al quarzo con pile out, collane di ‘vo cumprà’, una di perle pregiate, eredità di nonna Valeria e spille, anelli, bracciali, accanto la sveglia in plastica grigia assemblata chissà in quale capannone nella periferia di Pechino, che proietta l’ora in rosso, nella custodia di tela blu, due angeli che si guardano smarriti per la vicinanza con il voluminoso tomo del ‘Capitale’ di Carlo Marx, fermo da giorni alla pagina 89 e tre disegni del 2013, di Vesuvi che eruttano fiori, stelle, parole in cinque lingue, le sponde del letto in noce intagliato, con rose e losanghe in rilievo, il copri lenzuola di cotone, da giugno inoltrato, ma spinta via, eccessiva dopo una giornata con massime di 36 gradi, la sagoma sbilenca dell’armadio, sagomato per non intralciare il passaggio tra letto e parete, la porta cigolante, la finestra a vetri doppi ‘che da fuori non si vede il dentro’, accanto al letto il comodino con i cubi di tela strapieni di calzini arrotolati, di intimo a mezzo tra slip e boxer, canottiere con collo a ‘V’, cinture, bretelle stressate, ma la meraviglia è ospite dei sei ampi cassetti dell’armadio, colmi di cravatte classiche, inconsuete, trash, a righe e pallini, fiorate, dipinte a mano, esagerate, sobrie, a farfalla, coloratissime o monocolore, rosse, blu, verdi, beige, grigie e in terra il pavimento a mattonelle venti-venti ‘che oramai non le fa più nessuno’, nell’anta di destra di mia pertinenza il più da lasciare nei contenitori stradali di solidarietà, giacche fuori moda, pantaloni a gamba larga desueti, e nei cassetti lunghi una montagna di pullover pesanti, leggeri, di cachemire, lana che fa riccioli o cardata, a collo alto, senza maniche per sotto giacca e al centro del soffitto viene giù la catena tenuta da un gancio inserito nel cerchio di gesso, con le tre campane inadatte a contenere le grasse lampadine a basso consumo…ma ora basta, andare oltre l’ispezione a occhi chiusi sembra aver agito sui gangli del cervello adibiti a spostare in giù il martelletto del sonno, solo che i geni di Palo Alto hanno in serbo altro per completare il rito dell’incontro con l’emisfero destro e l’a tu per tu con l’area che governa il sistema immunitario, che ricontatto, dopo aver sovrapposto alla percezione visiva virtuale della stanza, a occhi chiusi, l’audio di suoni anche impercettibili, il tic tac della sveglia, di un aereo con itinerario notturno, del mio respiro, della testata del letto che sembra ogni notte assestarsi, del fruscio di lenzuola cambiate di fresco ed ecco l’ anticipare il minuzioso itinerario mentale per rilassare una ad uno tutti i muscoli dai piedi al viso, in contemporanea con l’intimo interrogatorio di sensazioni, certezze, dubbi, divagazioni, ricordi, timori, sospetti, previsioni, rimpianti, pentimenti, gioie e dolori, amori, occasioni sciupate, disgusto, rabbia, serenità inaspettate, imprevisti, ossessioni, manie, vizi e virtù, generosità e il suo contrario, speranze e delusioni, entusiasmi, iperattività e negligenza, verità e menzogne, edonismo, autocommiserazione, perdoni e vendette, maledizioni, sgarbi, galanterie, screzi, banalità, furore, isterie, dipendenze e autonomia, bluff, miraggi, giustizialismo e tolleranza, riconoscenza, permalosità, e ogni cosa, contenuta in un solo ambito introspettivo, anche se ampiamente frequentato, sperimentato in dimensione seriale, fondamentale dell’inedito approccio con i segreti del cervello, sempre meno oscuri per i costruttori della Npl, dell’avveniristica neuro programmazione linguistica, scienza destinata a rivoluzionare la conoscenza del potenziale ‘sommerso’ dei due emisferi celebrali.

E dormo e sogno: avvolto in un complicato involucro tecnologico, sostenuto da due mammasantissima di potenziali, futuri astronauti, che mi avviano alla rampa di lancio del New Atlas 2025, con obiettivo il pianeta Giove, ma come, io…sono matti, non so neppure cosa c’è due chilometri più su della mia testa, Giove mi fa pensare al capo degli dei e alla signora Giunone, in areo sudo, terrorizzato dalla paura del volo e mi imbottisco di ansiolitici, ho un paio i acciacchi ‘da età’, digerisco molto male e zoppico vistosamente per deficit osseo della direttrice anca-ginocchio, la vista non è 10 su 10, non di rado devo difendermi da crisi di panico che risolvo con il metodo ‘Scuola di Palo Alto’ descritta e allora ho diritto di sapere perché mi trovo nel ventre dell’astronave con la prua rivolta all’immensità del cosmo, interrogo dunque il tipo che sembra il deus ex machina dell’operazione spazio, prima che l’Atlas mi ingoi spinto a velocità da budella strapazzate e lui si chiama John, ci avrei scommesso, io nativo nella città degli Esposito, nell’Italia dei Rossi e dei Bianchi, da qualche tempo dei cinesi Li o Vu, ma tergiversa il boss della Nasa, mi racconta la barzelletta sull’astronauta sbarcato sulla Luna piena in corso di un’eclissi totale che terrorizzato comunica a terra con un “aiuto sono diventato cieco” e non mi fa ridere, insisto per capire a quale balordo è venuto in testa di proiettarmi nell’Universo, lui resiste, poi cede ma solo quando sono seduto in posizione di partenza e legato come un salame con varie cinture di sicurezza e mi confessa che il futile motivo della scelta di un uomo qualunque quale sono è banalmente nato dalla necessità di sperimentare l’effetto spazio sulla pelle di un signor nessuno, per capire se nel caso di un possibile the end della terra sia possibile spedire tutti noi in altri mondi, lo confessa mentre il razzo vettore s’impenna e lo strappo dalla terra è così violento da svellere le cinture di sicurezza dai loro agganci, per cui veleggio senza peso nell’abitacolo della capsula spaziale e batto con la testa nello spigolo di un ripiano in acciaio e…e mi ritrovo dolorante in terra a lato del letto, gli occhi cisposi, equilibrio precario, tempie che martellano, la sperimentata certezza della pressione a 200, un senso di smarrimento totale attenuato solo dalla vista della riproduzione di un quadro firmato da Picasso sulla maternità, periodo blu, e appena completamente desto mi rendo conto di aver riempito tre pagine e qualche rigo di più con soli due punti e a capo.

Ricordo quasi sempre il percorso degli incubi notturni, poche volte i racconti sognati. Spesso le incursioni nell’onirico che induce a risvegli con il respiro in affanno, pulsazioni cardiache parossistiche, la fronte bagnata di sudore.

Appena sveglio respingo l’impellente richiesta di mandare nello stomaco un caffè ristretto e mi ritrovo tra le mani il voluminoso atlante De Agostini. Negli occhi e nella coscienza, l’immagine, per quanto approssimativa dell’Amazonia, chiede di saperne di, più, sollecitata dall’orrore di seghe elettriche, corde robuste e bulldozer, piromani prezzolati coinvolti nel massacro della foresta nella rapina che sottrae ossigeno al più grande potenziale green all’umanità. ‘Padroni’, tra virgolette, dei sei milioni di chilometri quadrati sono, con la quota maggiore il Brasile e a seguire Perù, Colombia, poi, con meno ‘azioni’ Venezuela, Ecuador, Bolivia, Guyana, Suriname, Guayana francese. Nessuno di questi ‘soci’ muove un dito per impedire il massacro di aree verdi, che scompaiono in frazioni di tempo che terrorizzano i tutori dell’ambiente e legittimano l’allarme dei climatologi sul futuro ‘a termine’ della Terra minacciata dal riscaldamento climatico e dall’esproprio del verde operato dalla speculazione. L’immensa macchia verde che nell’Atlante colora una quota sorprendente del sud America, non racconta la disperata vigilanza delle comunità indigene, il sacrificio delle vittime che mettono in gioco la vita per difendere il patrimonio universale della Foresta. Per capire la dimensione della strage che l’Amazonia subisce anno dopo anno basta citare il dato dell’area sottratta al verde. Prima del 1970 quanto rimaneva era calcolato in 4 milioni e 100mila chilometri quadrati. Dopo circa quarant’anni si sono ridotti a tre milioni e trecentonovantamila. Quasi un milione rapinato con un numero impressionante di incendi dolosi: per avere un’idea della strage, i circa 83mila registrati nei primi otto mesi del 2019 e non è il record. Nello stesso arco di tempo del 2005 le fiamme si sono sviluppate nella foresta per 133mila volte. Se la devastazione dovesse proseguire impunita con questo terrificante andamento il destino del polmone del mondo sarebbe segnato, cancellato dall’incoscienza criminale dopo 55 milioni di anni dalla sua nascita. Tra le conseguenze l’espulsione violenta delle popolazioni che l’abitano, o meglio, che l’hanno abitata da oltre ventimila anni. C’è chi sostiene che le condizioni ambientali non consentono l’agricoltura e con la caccia sarebbe stato possibile vivere a un numero limitato di indigeni. Mi chiedo quanti sono oggi gli strenui difensori di un patrimonio che dovrebbe essere sotto tutela dell’intera umanità.

Una teoria attendibile smentisce la tesi di presenze umane rarefatte e immagina che nel 1500 sia stato possibile abitare l’Amazonia a 5 milioni di autoctoni, specialmente nelle aree costiere, ma anche nell’entroterra. Solo un milione di nativi nel 1900 e nell’ultima parte del secolo al massino duecentomila. Il numero sembra destinato a decrescere. E chissà, fino alla scomparsa delle tante etnie violentate dagli interessi dell’industria mineraria e dell’agricoltura industriale che non esita ad assassinare chi tenta di opporsi alla deforestazione, che in un solo anno ha ‘bruciato’ alberi in una superficie pari a più di un milione di campi di calcio.

L’incubo della notte appena trascorsa si è interrotto sul ‘fermo immagine’ di un giovane uomo intento a spegnere le fiamme di un incendio che avrebbe cancellato il tratto della foresta dove vive con la sua donna, due figli ei vecchi genitori. L’ultimo frem è per il suo corpo riverso sul suolo ricoperto di foglie, la testa insanguinata per la ferita mortale di un colpo di fucile da guerra sparato da di un killer seriale, la mano armata di una potente multinazionale mineraria.

Un lampo della memoria mi provoca un comprensibile choc emotivo. Accidenti sono stato da quelle parti con il volo di addestramento degli allievi dell’accademia di Nisida, ospite del C130, per raccontare l’esperienza di volo dei giovani destinati a diventare piloti militari. Interessato ad altro ho perso l’occasione di un’incursione in Amazonia. Da Caracas dove ho fatto tappa avrei potuto proseguire con un volo delle compagnie locali che fanno la spola con Manaus e da quella città avrei organizzato la spedizione nella foresta pluviale.

Occasione buttata al vento e non solo per ‘distrazione’ da impegni di lavoro. A quel tempo la questione amazonica non era tra la priorità di interessi extra lavorativi.

Ma ora? Nessuno e niente impediscono che possa farlo diventare un progetto, tardivo, ma motivatissimo per manifestare concretamente solidarietà agli indios sottomessi alla violenta colonizzazione. L’agente viaggi mi squadra con l’aria di dire “Ma che ti salta in testa in piena pandemia?” Ha ragione e mi convince a ricontattarlo a Covid azzerato. Impiego il tempo che mi rimane per programmare i dettagli del viaggio ed è prezioso il rapporto con Editon, tribù Awà, minacciata più di ogni altra dai sicari dei taglialegna e allevatori abusivi che distruggono la foresta. Questo giovane indio è il badante di un mio amico colpito da una forma non lieve di ictus. Mi consiglia di contattare il capo tribù e di munirmi degli strumenti di difesa dalla pandemia di coronavirus che colpisce la sua comunità con un numero altissimo di vittime. Mi racconta di essere sfuggito alla morte con una fuga precipitosa, per disperdere il sicario di una potente compagnia di allevatori.

La pandemia sembra sconfitta. Il vaccino realizzato in collaborazione tra Oxford e Pomezia ha evitato la ripresa di focolai. Riesco a procurarmene una buona scorta, da lasciare agli indigeni grazie alla mediazione di Emergency informata della mia decisione di andare in Amazzonia.

Ciampino, Francoforte, Caracas con la Lufthansa e dalla capitale venezuelana il volo non proprio rassicurante su un vecchio Mach 28 made in Germany, pilotato dal proprietario che non credo investa molto per la manutenzione del vecchio bimotore. Invocando la benevolenza della divinità protettrice dell’aviazione atterriamo a Manaus dopo dieci minuti abbondanti di giri sull’aeroporto, intasato di arrivi e partenze. Con gli occhi che si chiudono per troppe ore insonni, m’infilo nella comoda, storica ‘Buick’ del mio tassista abusivo e dormo per un tempo che non so valutare. Ci troviamo ai margini della foresta e Pedrito non ha alcuna intenzione di proseguire.

Con il mio saccone in spalla, che ho stipato fino all’inverosimile, cerco un’anima buona che capisca il mio tentativo di trasferire le frasi   da manualetto tascabile “parla in dieci giorni”, in spagnolo comprensibile. Mi spiegano che a piedi non è il caso di inoltrarmi nella foresta per raggiungere la terra degli Awà, ma sono venuto fin qua per questo e non desisterò, anche se avvertito da un esperto della sinistra ‘clandestina’, che lotta per salvare la foresta e conta oltre dieci vittime dei killer assoldati per disboscare senza interferenze degli ambientalisti e degli indios. Mi preoccupa sapere che dovrò fare i conti con il rebus di come sfamarmi per sopravvivere. Che gli indigenti se la cavano da sempre con la caccia e le rare risorse offerte di una terra difficile da coltivare, non è un riferimento di grande conforto. Per loro è la normalità da infinite generazioni.

Mi inoltro con cautela e provo a capire se il fitto della vegetazione nasconde qualcosa di commestibile. Esco in una enorme radura, spoglia di alberi, dopo molti chilometri fitti di alberi secolari, uno a distanza minima dall’altro. Nessun incontro per ore e solo a grande distanza la sagoma di un indigeno che deve avermi catalogato come ‘bracconiere’ di intruso scomodo nelle aree da disboscare. In uscita da un folto intreccio di alberi che non riconosco, probabilmente favoriti nella crescita dalla forte umidità del Rio delle Amazzoni, incontro un minimo insediamento abitato da indios. Ai piedi della casa di paglia, accucciata nella posizione tipica delle donne di tribù fuori dal mondo moderno, una giovane indigena sbriciola con colpi ravvicinati del pestello qualcosa che somiglia alla crusca. Sembra molto giovane e lo intuiscono dalla compattezza dei seni nudi che da queste parti sfioriscono presto, anche a causa della denutrizione. Le chiedo a gesti più che a parole, se conosce un capo dei Awà. Forse non ha capito cosa le ho chiesto, forse ha capito, ma non ha nessuna intenzione di rivelare a un bianco dove possa incontrare chi conta degli Awà. Me lo dice Conrad, la mia guida, uno yankee con il pollice verde che ha scelto di combattere con gli indios la devastazione della Foresta: “Se ti riesce d’incontrarlo parla con Wantu: credo sia l’unico dei Awà che ha rotto l’autoisolamento della tribù e per qualche anno è vissuto in Brasile.

Mi serve una guida e ho abbastanza denaro per convincere Conrad, un uomo di trent’anni scampato per miracolo a un agguato di criminali assoldati dei potenti per dare fuoco alla foresta, spesso senza avvertire gli indigeni, costretti a fughe precipitose per salvarsi dalle fiamme. Durante la faticosissima marcia di avvicinamento alla tribù degli Awà imparo a riconoscere il poco di commestibile che incontriamo e benedico la lungimiranza di aver sacrificato molto nel mio borsone per far posto a un leggero impermeabile con cappuccio, prezioso in un tratto della marcia sommerso dalla pioggia.

All’improvviso uno sparo, un colpo di fucile e per Conrad, colpito alla testa c’è poco da fare. Posso solo supporre che lo abbiano riconosciuto come un contestatore della deforestazione, altrimenti dovrei supporre che chiunque, estraneo a chi depreda l’Amazzonia, è un nemico da abbattere. Mentre mi accerto che la mia guida sia morta, non sento arrivare un gigante di due metri, un orientale armato fino ai denti. Mi chiede in un francese approssimativo che ci faccio nel cuore della foresta e con altrettanta quanto incosciente spavalderia gli contesto con veemenza di aver ucciso, un uomo senza una ragione, di fare violenza a chi rapina un bene universale. Mi guarda allucinato: “Tu vuoi salvare l’Amazzonia? Hai deciso di farla finita, vuoi morire da martire? Ti accontento, sono pagato e pure bene per questo.

Ho la canna della pistola che preme sulla tempia. Provo a capire che significa essere a un niente dalla fine, ad anticipare il momento dello sparo, giusto il tempo per investir il mio assassino di insulti: “Delinquente, non credo alla giustizia divina, e allora non posso sperare che ti faccia pagare in vita il mestiere infame del killer. Però, può sempre accadere che uno come me entri nella foresta imbracciando un mitra, che t’incontri e ti riempia di buchi mortali, bastar…” Non completo l’insulto. In quell’attimo ho la percezione che qualche volta gli incubi anticipano la realtà.

“Impedire che scritti non graditi abbiano diffusione è un classico del metodo di cui abusa la dittatura per imbavagliare chi le si oppone con argomenti e dati che raccontano il marcio del regime, ma non è il peggio. Hitler e il ridicolo compare, il “duce, duce” invocato da milioni di italiani in stato ipnotico, hanno eliminato del tutto il dissenso, qualunque idea autoctona scomoda o importata, non in linea con il pensiero unico. Montagne i libri bruciati in piazza, sequestri, alt all’importazione di pubblicazioni firmate da autori ritenuti incompatibili.

Per non privarsi delle personalità prestigiose, di ogni area significativa che dava lustro all’ideologia della dittatura lo strumento di convinzione per arruolarli era il tesseramento coatto, che rifiutato, avrebbe negato libertà e possibilità di lavoro.

Ascolto il racconto di Luca Santoianni, quarant’anni di militanza nel giornalismo d’inchiesta, da freelance, troppo scomodo per diventare organico in una redazione dei maggiori quotidiani e perfino in testate di sinistra. Luca se la cava con i compensi di corrispondenze che la compagna inglese traduce prima di spedirle a giornali di mezzo mondo, per sua fortuna liberi da censure.

Mi racconta: “Dopo settant’anni e più, poco è cambiato. Un’analisi, pur sommaria, disegna il panorama sconfortante di una metà, anzi di molto di più della metà dei Paesi dove la libertà di pensiero è un miraggio. È un fondamentale della comunicazione ‘desaparecido’ in gran parte dell’immensa area che oltre alla Cina include la Russia e non pochi Stati una volta suoi satelliti, la Turchia, la Corea, regimi del Medio Oriente, molti Paesi africani. Anche laddove il controllo su giornalismo non è platealmente esplicito, la libertà di diffusione subisce pesanti ‘ingerenze’ che la manipolano perché ‘non disturbi i manovratori’”.

“Avevi dubbi? C’è un caso di cui ho conoscenza diretta e lo devo alla fortunata amicizia con un coraggioso e temuto giornalista di un quotidiano che negli Stati Uniti tira tre milioni di copie. Mi ha inviato la copia di un dossier che documenta i complessi passaggi dell’operazione in corso per impedire che il ‘doculibro’ di Bolton acceleri l’uscita di scena del peggiore presidente eletto dagli Stati Uniti”.

“Pensi che Trump riuscirà a districarsi da una condizione comunque destabilizzante? Se la spunta Bolton il tycoon ne uscirà con la schiena curva e un’espressione molto poco spavalda, cotto a dovere sulla griglia del discredito definitivo che alimenterebbe la pessima fama accumulata in tre anni da inquilino della Casa Bianca. Se riuscisse a bloccare la pubblicazione, Bolton troverebbe facilmente un interlocutore con la schiena dritta intenzionato a rivelare la parte più scandalosa delle accuse e le conseguenze sarebbero ancora peggiori per l’immagine, già abbondantemente deteriorata di Trump”.

“Non c’è da stare sereni”.

“Questo è il cuore del problema, Quanto c’è in ballo è sotto il giogo di limitazioni di ogni genere, che cancellano la libertà di pensare e di dire la verità. Un caso italiano. È di questi giorni il tam-tam di avvertimento ai giornalisti che scrivono criticamente di politici di cui non condividono idee e modi di manifestarle. L’allarme: ‘Attenzione, il personaggio che raccontate con strumenti della satira, come definirli, a volte eccessivi, ha dato mandato ai suoi legali di reagire con valanghe di querele. Sa che non le vincerà in tribunale, perché la satira politica non è punibile, ma sa che creerà forti disagi ai querelati e alle testate che li ospitano per sostenere le spese legali di difesa”.

“Cosa spaventa Trump, che tu sappia oltre le notizie di agenzia pubblicate?”

“Balton è uno che sa e il pretesto per tentare di impedire che divulghi notizie ‘infamanti’ sarebbe secondo il presidente razzista un rischio per la sicurezza nazionale. In realtà in pericolo, come mi ha rivelato il collega americano, è il crollo elettorale di Trump e di tutto quello che si porta dietro per pagare il debito con chi gli ha fatto vincere le elezioni. Il peggio per il suo futuro politico è leggere che ha chiesto a al presidente cinese Xi Jinping di aiutarlo a vincere la rielezione in questo 2020, in cambio di ‘sconti’ sui dazi imposti alle merci del suo Paese. In attesa della decisione di bloccare la vendita il libro si vende come un bestseller on line e saperlo terrorizza il tycoon. Bolton trova anche il modo di tacciare Trump come ignorante in politica estera. Tanto che dice ‘mi farebbe piacere invadere il Venezuela, Paese che fa parte degli Stati Uniti!’. Altre indecenze? L’intenzione di donare a Kim Jong-un, dittatore della Corea del Nord, un compact disc autografato da Elton John, la sparata di considerare i giornalisti soggetti da condannare a morte o da chiudere in carcere per conoscere le fonti delle loro informazioni”.

“Luca, il presidente finirà per spuntarla con il sequestro del libro?” I legali di Bolton negano, ma in questa America dell’antidemocrazia purtroppo tutto è possibile”.

“Certo tutto è possibile, ma quanto già è diventato di dominio pubblico, lascia dubitare che Trump ne esca ‘pulito’. Comunque, restiamo in tema. Ti propongo esempi di libera creatività, generati dalla clausura imposta dalla pandemia: l’Italia ha scoperto di aver ignorato da sempre una delle vocazioni più gratificanti del tempo libero, ovvero la scrittura creativa.

Eroi, ma soprattutto scrittori. In quarantena

Di seguito, senza un ‘punto e a capo’: computer sempre on, a temperatura da autocombustione, gangli dell’emisfero celebrale destro sottoposti a surmenage, stressati, incursioni negli scaffali della libreria a caccia di sollecitazioni alla creatività, costante approfondita attenzione al trend pandemico del coronavirus, a dati, interpretazioni, opinioni scientifiche di tuttologi; archiviazioni temporanee di storie inconsuete, commoventi, inedite, aggettivazioni appropriate per esaltare gli eroismi dei tutori a rischio della vita di intubati, assistiti in terapia intensiva, gratitudine per l’Italia dei buoni che compensa con la dedizione del volontariato il deficit dello Stato assistenziale, ridda di ipotesi su origini, cause, terapie, pronostici di durata del virus, possibili recrudescenze, racconti patriottici di tricolori al balcone e canti corali di Mameli, adozione più o meno consapevole del collettivo ‘Bella Ciao’, spot di incoraggiamento ‘Ce la faremo’, ‘Tutto finirà bene’; intromissioni di satira e ironia nel guazzabuglio di sentenze scientifiche firmate da virologi, immunologi, biologi, pneumologi, processi a questo e quel soggetto istituzionale a cui il Covid-19 ha imposto di decidere, di rispondere alle critiche su inefficienze pregresse e in corso, il via alla corsa a ostacoli delle eccellenze che ad ogni latitudine sono impegnate nell’offrire all’industria farmaceutica il vaccino risolutore della pandemia, le misteriose refrattarietà angloamericane a contrastare il Covid-19 con la strategia di Whuan del ‘tutti a casa’, per non alienarsi gli alleati del pianeta industriale, petrolieri inclusi; furbate egoistiche nell’accaparramento preventivo di scorte del vaccino di là da venire, sciacallaggio speculativo sul grave deficit di presidi sanitari, con punte delinquenziali di profitti con la vendita a costi di strozzinaggio di prodotti non certificati e importati clandestinamente, l’opposto dei salvavita made in Italy, ma richiesti dai nostri ospedali spediti oltre confine; il diffuso intromettersi della criminalità nel fragile tessuto commerciale in pre fallimento, per rilevare attività in crisi, il lento addio alla fase uno, l’incerto avvio della seconda, il rischio di concedere troppo presto la terza, schermaglie, guerriglia e battaglie campali maggioranza-opposizione, l’ardua contesa con i partner della Comunità per modificare modi e consistenza delle risorse Ue ed evitare il default dell’economia italiana; i capelli lunghi dei maschi, lontani per mesi dai barbieri, la tintura ‘fai da te’ di quelli delle donne, le paralisi di musica, teatro, cinema, luoghi del coffee hour, lo stop a pranzi e cene fuori casa, i novanta giorni di solitudine della gioventù protagonista della movida, l’astinenza dall’oppio di calcio, basket, motori e ogni altra forma di droga sportiva, la tv da teche che ha recuperato il repertorio di Totò, i western di serie B, il bianco e nero del bel tempo che fu, i talk show di conduttori/trici in apparizione solitaria, interrotta via Skipe con ospiti alle prese con audio imperfetti; lo sconto temporaneo Sky agli abbonati del calcio in assenza dell’offerta televisiva, i consulti degli internauti ai siti di nutrizionisti per smaltire chili su chili da ‘mangiate in mancanza d’altro’; il prolifico incremento di motti, proverbi e frasi sulla quarantena, più o meno spiritosi, proposti da siti specializzati, dotte, farneticanti dissertazioni sulle mascherine egoiste, altruiste, bifunzionali, l’estro creativo di giovani talentuosi, inventori di dispositivi da terapia intensiva, il grazie ai grandi della moda che hanno ristrutturato macchinari per sfornare milioni di mascherine, la benevolenza per l’Italia di Cina e Russia, di Cuba ed altri con l’invio di medici, infermieri e presidi sanitari, il tam-tam esclusivo, martellante, ossessivo, H24, dei media su contagiati, guariti, in terapia intensiva, deceduti, il salva scuola Rai per via telematica; l’incognita dei vacanzieri sull’estate sotto minaccia di residui focolai del ‘maledetto virus’, le canzoni di autori famosi o sconosciuti sul tema, la spesa a distanza ‘telefono-consegna’ o peggio, ore di coda distanziata all’ingresso dei supermercati con ‘prezzi bloccati’, ma autorizzati dall’emergenza a mandarti il riso X anziché l’Y richiesto, a depennare lievito e tonno, mancanti, a fissare la consegna dopo undici giorni dall’ordine; nuotate a tutto braccio nel mare della crisi dei giganti della spesa on line, immagini di Google che mostrano chilometri di auto invendute, il ‘come stai?’ via smartphone, che aiuta a non cancellare con la distanza di sicurezza gli amici del burraco; la pelle delle mani al tatto ruvida a furia di strofinarla diciotto volte al giorno, le previsioni di esperti della ripresa delle coppie italiane a procreare, con sommo gaudio del presidente Inps per il futuro incremento di versamenti al fondo pensioni; i produttori di batterie per auto che si fregano le mani, perché la sosta prolungata ne ha mandate in tilt non poche; l’intreccio degli opposti depressione-iperattivismo domestico, panico diffuso per il libera uscita prolungato di colf e badanti; le tv di casa che non conoscono soste rigeneranti, mentre si esaurisce in un niente il credito dei cellulari, unico trait d’union con amici e parenti; l’incremento di artrosi cervicali da interlocuzione eccessiva con il computer a vantaggio dei produttori di antidolorifici e antinfiammatori; diventa quantità pericolosa il rinvio di interventi chirurgici, delle indagini di laboratorio, di visite di controllo, cure dentistiche; i siti You Tube, Rai play, l’on demand di Sky, diventano mezzi permanenti di distrazione dall’incubo pandemia, spavento per un colpo di tosse in più, un paio di starnuti da banale raffreddamento, il senso di amaro in bocca, un dolore muscolare generano…e…

…e tutto questo, ma chissà quanto altro, finisce in innumerevoli manoscritti dell’Italia sempre più terra di scrittori, che lavorano sodo per narrare la loro epidemia, il vissuto proprio e quello per sentito dire del popolo dei sintomatici, asintomatici, di bambini esenti e vecchi esposti come nessun altro all’aggressione virale. I supervisori delle case editrici, a cui spetta la scelta di cestinare o pubblicare i manoscritti ricevuti, denunciano di essere sommersi di inediti, di racconti, romanzi, poesie, saggi. Definiscono l’assalto degli scriba “orgia da virus” e firmano un prestampato da inviare agli autori che recita “Grazie per aver scelto di sottoporre la sua opera all’attenzione della a nostra casa editrice. Le comunicheremo ogni decisione in merito…”. Nell’attesa, il manoscritto, stampato a proprie spese dalla tipografia sotto casa, finisce sul comodino di zie lettrici, amici del cuore e di un nipote ritenuto autorevole per aver pubblicato un ‘giallo’ (a pagamento) con un editore che distribuisce i suoi liberi in ‘esclusiva’ a dieci librerie della sua città.

Samira Azzam, insegnante e giornalista palestinese. Con le edizioni “q” ha pubblicato esempi della sua vena narrativa: ventidue accattivanti racconti brevi, esempio di letteratura araba contemporanea. La sua è un’osservazione puntuale della trasformazione che nel suo Paese ha portato alla sostituzione degli abitanti palestinesi con gli israeliani. È la narrazione dei momenti drammatici di quell’evento, che hanno fatto della condizione degli abitanti storici un popolo di profughi, simbolo più generale dell’umanità dolente.

Mi chiedi com’era la nostra primavera. Che cosa posso dirti. Generosa, verde, colori ovunque ti voltassi, come se le pietre avessero mille foglie. Mi chiedi com’era e io ti rispondo: come in nessun altro luogo. La nostra primavera arrivava portata su nuvole profumate d’arancio, fiori bianchi che spuntavano nei grembi degli aranceti. Il profumo ti penetrava per le fessure delle finestre e sembrava di dormire su un cuscino di fragranze. Fiori d’arancio erano collane al collo delle ragazze, bracciali ai polsi e oltre al desiderio di farsi belle erano promessa di una ricca stagione d’oro giallo. Non mi chiedere com’era la nostra primavera, chiedimi piuttosto quale primavera può competere con quella degli aranci.

Mi chiedi della primavera degli aranci? Dico che era lunga, ininterrotta, persistente. Immagini che non smettevano di prendere nuove forme e colori di ogni stagione; le gemme bianche diventavano frutti estivi verdi, che pendevano dai rami carichi, piegati dal peso dei frutti rotondi su cui si gettavano i bambini nel gioco. I frutti estivi verdi erano miniere di oro giallo su cui scorrevano le nuvole del nostro inverno, come zucchero e miele. Gli occhi dei raccoglitori si riempivano di gratitudine, traboccanti di amore.

Mi chiedi della primavera degli aranci? Allora chiedimi pure dei doni. Albero che accompagnava albero, aranceto che seguiva aranceto giardino che abbracciava giardino a formare un unico grande giardino per tutti: quello che piantava, quello che raccoglieva. Quello che esportava, lavoravano con energia, pronti ad alleggerire gli alberi di ciò che li appesantiva per prepararli a una nuova promessa. Non chiedermi come tutte quelle persone avessero legato la loro vita agli alberi. La verità è che l’arancio non è solo un albero, è una pianta che conosce quale sia il suo ruolo. Mani per la raccolta e mani per le cassette, mani che le portavano alle navi, mani che prendevano e mani che davano. Un guadagno comune, un bene che lasciava un dono in ognuno e ricchezza per tutti. Non mi chiedere, il commercio sarà pure un affare, ma nel caso degli aranci è invece un viaggio attraverso gli occhi, il cuore e la prosperità.

Tu che chiedi della nostra primavera, di quella che fu e di quella che sarà: la primavera tornerà all’aranceto, è questo il dono delle stagioni.

Il mandorlo e il giardino

Il mandorlo e il giardino. Non è un albero come tutti gli altri, non è un giardino come tuti gli altri: è come l’unico albero nell’unico giardino. Sono luci e stelle bianche legati a mille promesse nei suoi appuntamenti con la primavera e quando sbocciano la nostra primavera è primavera e nell’aria si condensano le fragranze di Aprile.

Mi hanno raccontato che con le sue stelle bianche l’albero dalla grande ombra, in Aprile, ha cercato i bambini per far piovere su di loro le sue stelle e non li ha trovati e allora li ha aspettati nelle mattine e nelle sere di primavera. Nel giardino non sono comparsi più, perciò il mandorlo si è scrollato dei fiori spogliandosi ramo per ramo. Nel cuore del guardino, che era stato una primavera, oggi c’è un albero che gli altri alberi non riconoscono, con le radici secche e il battito spento perché ha perso il ritmo delle stagioni come se tutti i giorni fossero autunno nella rotazione del tempo.

Mi hanno raccontato che il mandorlo spoglio, l’albero che un tempo era stato un ombrello bianco per tanto fiorire, non è caduto solo perché ha le radici salde in terra. Gli chiesero:

– Perché non ti avvolgi di verde come gli altri alberi o è vero che per te è meglio morire?

– Ho fatto un giuramento. Ho promesso che mi legherò solo agli occhi di quelli che il tempo ha allontanato da me e che nutrirò solo la mano che un giorno mi ha unito alle fonti della vita.

Ieri ho di nuovo pensato al mandorlo: non l’ho visto secco come un autunno, erano illuminate invece le sue stelle bianche come chi è in un giorno di festa e ho sentito che diceva:

– Ritorneranno, solo allora diventerò un albero con la dignità degli alberi nel giardino della primavera.

Dall’anello pieno di chiavi di ogni forma e grandezza ne prese una dicendo:

– Questa. Le altre le abbiamo provate una a una: so che questa è del cassetto, quest’altra della credenza, la terza dell’armadio e la quarta è della porta di casa, questa invece non ha girato in nessuna serratura. Non è né di un cassetto, né di un armadio. Che cosa apre questa chiave, mamma?

Mia madre sorrise con un sorriso amaro e disse:

Mi sembra triste piuttosto, mamma. Però, non hai ancora detto cos’è questa chiave che porti nell’anello da tutti questi anni.

L’armadio conteneva la storia della famiglia e questa chiave apre quella storia.

Mia madre portava con sé la chiave di un armadio lontano, sicura, com’era del colore azzurro del cielo, che un giorno sarebbe ritornata a cercare l’armadio e su quest’armadio avrebbe scritto una nuova indimenticabile data…quella del ritorno.

L’ibrido, nel parlare quotidiano degli italiani, è la conseguenza di contaminazioni endogene (dialetti) ed esogene (inglese, francese, spagnolo, tedesco). Penetrano l’impianto puro che s’identifica nel dolce stil novo di Dante e s’intromettono in permanenza per inerzia o condivisione del vivere globalizzato dell’umanità. Per l’imperscrutabile, che governa la creatività, questo di seguito è il risultato di un’idea forse bislacca, ma da innamorato della lingua parziale purtroppo invasa da estraneità internazionali. (seconda puntata)

In volo di ritorno a casa inganno il tempo leggendo uno dei quotidiani offerti dallo steward. Quanto c’è di bipartisan (equidistanza nella visibilità dei diversi partiti) nella politica italiana? Bella domanda: niente! Jobs act, leggo nelle pagine interne con riferimento alle norme che regolano il lavoro. È tempo di elezioni, fase delicatissima del Paese ed è ovviamente forte l’interesse per gli exit poll, le prime interviste all’uscita dei seggi. Spregiudicato lo speech, il commento a caldo dei candidati, in particolare dell’onorevole ‘X,Y’, che ha presentato in Parlamento un disegno di legge sulla stepchild adoption, l’adozione del figliastro. Non meno rilevante è stato l’intervento di pochi giorni fa a Palazzo Madama di un senatore accreditato come spin doctor esperto di comunicazione, eletto con il partito di governo per la sua riconosciuta competenza. Sua una puntuale relazione sul welfare, lo stato sociale, tema caro alla maggioranza. Sfoglio le pagine del Sole 24 Ore e mi imbatto nell’annuncio del potenziamento del customer care, ufficio di assistenza ai clienti delle banche, mission (scopo aziendale) che sta a cuore del neo presidente della Confindustria, non meno dello startup (piccole, nuove imprese con idee innovative). Un articolo di fondo si occupa di community manager, figura che con l’avvento dei social network se la vede con le reti social, cioè sociali, delle aziende. È polemica sul dualismo part/full time, orario ridotto/orario pieno. Inedito è il ruolo dei free lance, lavoratori in proprio. All’estremo il Ceo, avvero l’amministratore delegato, ovvero il Chief Executive Officer. Tra i suoi compiti l’impegno al vertice aziendale di affidare ad esperti il compito di individuare il target, ovvero la fascia dei potenziali consumatori un determinato prodotto. Nel corso di un meeting, cioè di una riunione è stato promosso manager, persona in ruoli di dirigente di un giovane promettente. Il Ceo è preoccupato: c’è da rispettare il deadine, termine ultimo di una importante consegna. In conference call, in inter-relazione telefonica, parte la sollecitazione e vi fa seguito un’email (una lettera via internet) a consegna in tempo reale. Uno dei dirigenti che partecipano al summit, al vertice aziendale, ha dimenticato lo smartphone, il cellulare acceso e si merita la disapprovazione generale, perché squilla. In teleconferenza, grazie alla connessione senza cavi del wireless, si concordano le scelte a venire con le filiali estere. Ricavati dalla Random Access Memory (RAM), memoria dell’hard disc, del disco all’ interno del computer, dell’elaboratore, si scambiano i dati in reciproco possesso, visibili grazie al software, al sistema operativo, con l’ausilio di quanto racconta il desktop, la scrivania, grazie al touchscreen dispositivo che opera semplicemente toccandolo. Si decide anche se potenziare la visibilità sui social network (Facebook, Instagram, Twitter). Ampio spazio è riservato dal Sole 24Ore alla moda, settore trainante dell’export, dell’esportazione, grazie a suoi prestigiosi brand, marche che impongono il must-have, capo di abbigliamento da possedere a tutti i costi, che fanno trendy, tendenza. Un articolo di cronaca rosa si sofferma sul make up, il trucco sofisticato delle modelle. Le esigenze della fashion, appunto della moda, pretendono che tutto sia cool, figo, attraente e si perfeziona il progetto della sfilata dell’outfit, l’insieme dei capi.

Arrivo alle pagine dello spettacolo: il critico del periodico ‘Cinecittà’ le gestisce con creatività e con non minore severità. È lui che classifica come B movie i film considerati minori, estranei al cinema d’autore. Dedica molta attenzione alla soundtrack, alla colonna sonora e non nasconde la preferenza per i drama, pellicole di genere appunto drammatico. Ha minore attenzione per i legal, ambientati in aule del tribunale, soprattutto se proposti in sequel, in più repliche di genere. Racconta con acume il prequel, quanto precede la stesura della sceneggiatura e aborre lo spin-off, opera di derivazione da un’altra parallela. Non sono particolarmente interessato alla musica cosiddetta ‘leggera’, ma non ritengo neppure giusto disinteressarmene. In apertura della pagina ad essa dedicata un articolo spiega le ragioni del successo, specialmente tra i giovani, dei videoclip, brevi filmati musicali, che hanno come epigoni famose star (artisti famosi) internazionali. Fa scandalo quello che un tempo era prassi abituale e cioè il play back di esecutori che muovono le labbra fingendo di cantare, mentre va in onda la registrazione dei brani. Ora è obbligatorio il live, il cantare dal vivo. Personaggi in grande evidenza sono i Dj, disc jockey, deejay selezionatori della musica da trasmettere in discoteca, in radio. Sono in genere anche talent scout, scopritori di trendsetter, futuri protagonisti del favore di massa. Tra molte eccellenze capita anche qualche esempio di trash, di gusto discutibile. Grande visibilità l’acquisiscono i millennials, quelli della generazione in auge nella seconda metà degli anni 80, posteriore ai baby boomers (1945/1964) americani, a cui si deve la crescita demografica negli Stati Uniti. Viene il tempo dei teenagers, giovanetti pre diciottenni. Mi spetta una sosta prima di imbarcarmi sul jet degli Emirati per la seconda parte del viaggio. Mi concedo un coffee break, una pausa al bar e profitto del duty free, dei prodotti esentasse in aeroporto per comprare uno degli ultimi modelli dello ‘Swatch’, regalo di birthday, di compleanno per la mia Laura, che compie i dodici anni nei prossimi giorni. Scelgo di risolvere la questione pranzo in aeroporto e mi affido all’ ‘All you can eat’, al ‘mangia quanto vuoi’ a prezzo fisso. Sono di rientro a casa, dove i promotori di un ennesimo award, premio letterario, che mi ha designato vincitore della sezione thriller, dei gialli. S’imbarca nel mio stesso jumbo una famosa band, il gruppo musicale di cui è leader Sting, che firma autografi con molta disponibilità al personale di volo. Con l’artista viaggia il cameraman (operatore Tv) che affianca una giovane e bella giornalista dei “Music” inviata per seguire il famoso big mondiale della musica mondiale nella tournèe, nel giro mondiale di concerti. Ha combinato ogni cosa il broker, l’agente di Sting, autorizzato a investire una cifra consistente per la realizzazione di un servizio che comparirà su ‘Music’, una serie di periodici e importanti Network televisivi a dimensione nazionale, come racconta il percussionist, il batterista del gruppo. Sting ha in programma il lancio di una nuova compilation, di una raccolta con le nuove proposte. In copertina del DVD, il cantante ha voluto che il grafico pubblicasse l’immagine che ha catturato tra un concerto e l’altro in cinque Paesi africani. Nella foto un bambino quasi senza più carne sulle povere ossa riesce a leccare qualche goccia d’acqua che cola dal rubinetto di una fontana a secco. Il titolo: Water, african tragedy. Acqua, tragedia africana.

Il jumbo si arrampica in cielo e vince a fatica le potenti folate di wind, vento sabbioso generato dal calore fuori stagione del Sahara. Scirocco, informa il comandante, che interviene rassicurante con un messaggio, amplificato dagli altoparlanti di bordo: “No problem, we are about to get out of the turbulence, in a few seconds we will be out”. (Nessun problema, in pochi secondi usciremo dalla turbolenza). Resta in sospeso la speranza di ascoltare in un futuro non lontano i messaggi di hostess e comandanti di aerei nella lingua italiana.   

“Home, sweet home, casa dolce casa, arrivo, My god thanks, all ok” Chissà perché, alla fine di ogni volo su rotte internazionali mi viene da pensare in inglese. O forse lo so. Nel tempo la nostra lingua ha finito per somigliare a una variante italo-inglese.   Nella cassetta delle lettere trovo la copia del giornale che leggo da sempre. Oramai è un’ossessione l’invadenza del british e dò un’occhiata veloce alla quarantina di pagine del quotidiano. Ne ricavo un elenco parziale, questo: friday for future, leader, young, lock down, spin doctor, recovery fund, next generation, bike strike, rage against the machine, insurrection act, tour, know how, affordable act, black lives matter, onder folk pop, session man, cosmic pop, keep your feet on the stars, silent days, soffice funk, spillover, task force, software, holding, green, white lives matter, who police kill, reprinted with permission, writers, black Panthers party, lover east side story, selfdefense. Andrei oltre, ma mi fermo qui, per sfinimento.   Stasera zero Tv. Sprofondato nel comodo divano ‘due posti’ riprendo dalla pagina ottantanove l’italianissimo “Amata scrittura” dell’amatissima Dacia Maraini e intreccio le dita: finora neppure una parola in inglese.

L’ibrido, nel parlare quotidiano degli italiani, è la conseguenza di contaminazioni endogene (dialetti) ed esogene (inglese, francese, spagnolo, tedesco). Penetrano l’impianto puro che s’identifica nel dolce stil novo di Dante e s’intromettono in permanenza per inerzia o condivisione del vivere globalizzato dell’umanità. Come ogni settimana, ormai da anni, ho davanti a me l’‘imperativo categorico’ dell’invio ad Andrea, editore della ‘Voce delle Voci”, di un ‘Racconto della domenica”. Per l’imperscrutabile, che governa la creatività, questo di seguito è il risultato, parziale (prima parte), di un’idea forse bislacca, ma da innamorato della lingua italiana, purtroppo invasa da estraneità internazionali.

Mary (perché non Maria?) prima di uscire di casa mi ha chiesto di comprarle l’anti age (anti età). Vuole accrescere il suo livello di appeal (attrazione). Il piccolo di casa Micky (perché non Michele?): “Quando torni a casa mi aiuti a fare un abstract (un riassunto)? Da scolaro diligente, tiene molto all’audience (ascolto, consenso del pubblico) dei compagni di classe). Il suo background (sfondo) scolastico non è un granché e il backstage (dietro le quinte) neppure, ma se la cava.

Ho temuto per un momento di aver dimenticato il mio badge (tesserino) d’ingresso in ufficio e temo che mi costerà un bel ritardo tornare a prenderlo, ma anche la ramanzina del mio boss (capo). Per fortuna ho con me il contenitore di pratiche che lui ha chiesto di comprare ed è del brand (marca) che preferisce. Glielo consegnerò durante il break (pausa) che precede l’incontro programmato per definire i big business (grandi affari). Spero che il compratore (buyer) del nostro prodotto paghi cash (in contanti) e che sia disposto a un consistente catering (approvvigionamento). Oggi devo chiedere di uscire dal work (lavoro) mezz’ora prima per recarmi a parlare con il coach (allenatore) del mini basket (pallacanestro) di Micky (Michele), perché si faccia un concept (idea) della sua disposizione a far parte della community (comunità) del gruppo allievi e lo segua nel fitness (allenamento). Prima devo controllare nella mia bank (banca) se mi hanno accreditato le royalties (diritti d’autore) dell’ultimo yellow (giallo) pubblished (pubblicato) da una casa editrice emergente. Il device (dispositivo) del racconto si presta per la trasposizione sul display (schermo) televisivo, ma devo raccomandare alla costumista che ho in testa il rispetto del dress code (regole d’abbigliamento) dei protagonisti, specialmente del detective (poliziotto), ovvero dell’ever green (intramontabile) Mc Allen (Nunzio De Cristofaro). Ma sono tranquillo. Helen (Elena) di fashion (moda) se ne intende come pochi. Certamente non mi riserverebbe un flop (fiasco).

Ah, devo chiedere a Anghela (Angela), interprete del ruolo di Isabel (Isabella) di andarci piano con il food (cibo) per non ingrassare e alimentare il gossip (il pettegolezzo) sulle sue forme da qualche tempo abbondanti. In ogni caso la mia trovata per un happy end (lieto fine) della fiction credo sia vincente. Prima di cena passerò in hotel (albergo) per discutere con il co-sceneggiatore se la scena che affronta il tema del jobs act (della legge sul lavoro) è funzionale al racconto o è ridondante. Il look (aspetto) dell’incipit è volutamente light (leggero) e la conferma l’ho ricevuta con una e-mail (posta elettronica) dal producer (produttore), che l’ha apprezzato. Accidenti, ho dimenticato di telefonare a Victor (Vittorio) il visagist (esperto) di make up (trucco) consigliato dal mio amico Steven (Stefano) affermato director di famosi film (pellicole) della cinematografia inglese.

Domenica Micky esordirà nel team (squadra) della scuola per la championship (torneo) delle scuole della città e del suo hinterland (periferia). Subito dopo è previsto il meeting (riunione) dei parents (genitori) per discutere della mission (missione) che porterà la squadra in trasferta, sottospecie del world tour (giro del mondo) dei globetrotters (appunto, giramondo), naturalmente in sedicesimo e in ambito regionale.

Sembra che il torneo sarà raccontato dalle news (notizie) di una local agency (agenzia locale). L’esito del championship è open (aperto) a ogni soluzione, ma comunque vada per mio figlio sarà okay (andrà bene). Sono fiducioso. Micky ha un partner (compagno) di grande talent (talento). Prevedo che dovremo preparare un gande party (festa) per la vittoria. Forse esagero, ma proverò a chiedere la partecipazione del premier (primo ministro) che mi deve un favore. Ovviamente gli stenderei un red carpet (tappeto rosso) che fa tanto trend (tendenza).

A questo punto mi sarei meritato uno spazio di relax (riposo). Finalmente mi concederò con Mary lo show ‘Jesus Christus Superstar’, nella sua rinnovata edition (edizione).

My sister (mia sorella) Lyza (Elisabetta) mi chiede da Londra di mandarle un selfie (autoscatto) di tutta la family (famiglia) e che sia ‘sexi’ (seducente). La scatto con il Vesuvio alle spalle e mia nipote Meg (Margherita) bellissima sedicenne in primo piano.

Devo capire perché alla 15 in punto lo stomaco reclama e deve placarlo con uno snack (merenda). Mentre mando giù il quarto coffee (caffè) della giornata calcolo grosso modo la dimensione dello staff (personale) indispensabile per i primi ciac (si gira) del mio ipotetico film. Mi distoglie dall’impegno la scoperta di essere salito sul tram sprovvisto di ticket (biglietto). Conto sul fatto che siamo in pieno weekend (fine settimana) e probabilmente anche per i controllori è tempo di mini holidays (vacanze brevi).

Devo affrettami. Oggi non ho ancora scritto la mia nota quotidiana per le web tv a cui collaboro e devo anche preparare la relazione per il workshop (seminario) di dopodomani su ‘War and Peace’ (Guerra e pace) al convegno di Emergency (Emergenza) che sarà commentato dai social network (reti sociali). Ci sarà anche il ministro della cultura, protetto da bodyguard (guardie del corpo) perché obiettivo di minacciosi stolker (persecutori).

Accendo il computer (elaboratore) e accidenti, ho dimenticato la password (parola chiave). Rivolgo un’accorata answer (richiesta) al server (sistema operativo) per ottenerne una nuova. Illusione: il wi-fi (tecnologia per reti locali senza fili) è out (sconnesso) e non mi resta che chattare (collegarmi per parlare) con the experts (gli esperti) che via internet (rete di telecomunicazioni) spero mi propongano la solution (soluzione).

Nell’attesa chiedo al telecomando di Sky Q di segnalarmi i film thriller (gialli) disponibili e mi fido del titolo invitante “Dead in Rome”, “Morte a Roma”. Premo il tasto out (spento) dopo 180 secondi. È trash (spazzatura) il racconto di un regista dilettante allo sbaraglio e avverto la delusione dell’all inclusive, (tutto incluso) dell’abbonamento, che meriterebbe un lauto sconto sul costo mensile. La visione del film non comunque must-have (qualcosa da avere a tutti i costi) e mi fiondo sulla compilation (raccolta di canzoni di successo) di Fiorella Mannoia che interpreta magistralmente ‘Felicità’ di Dalla a due voci con Ron

Profitto dell’orario continuato delle botteghe e dirigo a passo svelto alla boutique (negozio di lusso) che espone le più belle cravatte made (prodotte) in Italy (Italia). La commessa è davvero chic (elegante) e quasi mi vergogno di chiederle se posso profittare della toilette (gabinetto). Come in Francia, nel bagno, pari al luogo prestigioso dove mi trovo, non ha il bidet (aggeggio per l’igiene intima). Scelgo una cravatta regimental (a strisce oblique bicolore) e prima di rientrare mi fermo a comprare una baguette (sfilatino) con cui accompagnare un piatto di poisson (pesce) congelato, marca ‘Pinguino’. Apprezzo il savoir faire (saperci fare) di Micky che odia le sogliole, eppure ne mangia una enorme, per non fare storie inutili. Chapeau (tanto di cappello) commento per apprezzare il sacrificio e perché sorpreso da un raro déjà vu (già visto).

Non ho fatto la barba e rimedio, anche per provare l’aftershave (dopo barba) regalo di Mary, ma resto in alert (allarme), per non tagliarmi. Devo completare la rasatura as soon as possibile (al più presto) perché è pronto il dinner (cena). Al Conad, Mary ha utilizzato l’offerta all inclusive (tutto compreso) ed è tornata a casa con quattordici buste stracolme di ogni asset (bene). Attachment (allegato) allo scontrino c’è un post (foglietto adesivo) con serie e numero per partecipare al concorso “tutto sottocosto”.

In casa è tempo di audit (verifica) di oggetti e capi di abbigliamento di cui disfarsi in questa fase di austerity (austerità). L’award (premio) è la riconoscenza di chi non ha niente. Si può farne materia di beneficienza. Potremo diventare benchmark (riferimento) per i poveri assistiti dalla Caritas e in cambio ottenere un benefit (gratifica) morale. L’atteggiamento rientrerebbe nel best practices (buona prassi).

Penso a John (Gianni), il mio amico magistrato a cui hanno assegnato un bodyguard (guardia del corpo), perché minacciato da killer (assassini) della mafia che lui combatte coraggiosamente, per mettere fine a un pericoloso blend (miscela) di camorra e ‘ndrangheta. Mi propongo di riservare un break (pausa) per fargli visita e metterò mano al mio budget (previsione di spesa) per regalargli lo smartphone (cellulare) di ultima generazione) che mi ha detto di desiderare. So che è alle prese con un complicato case history (caso esemplare) a cui dedicherà come sempre il più totale commitment (impegno).

Per questa ardua incombenza, so che ha dovuto dire bye, bye (ciao, ciao) ai suoi hobby (interessi extra lavorativi).

Samira Azzam, insegnante e giornalista palestinese. Con le edizioni “q” ha pubblicato esempi della sua vena narrativa: ventidue accattivanti racconti brevi, esempio di letteratura araba contemporanea. La sua è un’osservazione puntuale della trasformazione che nel suo Paese ha portato alla sostituzione degli abitanti palestinesi con gli israeliani. È la narrazione dei momenti drammatici di quell’evento, che hanno fatto della condizione degli abitanti storici un popolo di profughi, simbolo più generale dell’umanità dolente.

La battaglia era impari e lui lo sapeva. Nonostante le sue pallottole fossero piene di odio, provocavano solo nuova distruzione. Lui lo sapeva che spararle era inutile: la sua mitraglietta era un giocattolo di fronte alla successione ininterrotta delle bombe. Ma quel che tentava di fare era di coprire la fuga della gente che aveva cominciato ad abbandonare il villaggio fin dal pomeriggio, dopo essersi resa conto che restare, una volta esaurite le munizioni, portava a una brutta fine.

L’accordo preso nel pomeriggio con alcuni compagni della Guardia Nazionale era quello di coprire il ritiro: avevano esaminato la situazione e concluso che con le munizioni di cui disponevano, potevano resistere solo poche ore. Battir, il loro villaggio, si trovava sul fianco di una collinetta. Mentre le postazioni degli ebrei erano dislocate sulla montagna, a ovest. Li divideva una valle percorsa dalla strada ferrata, che solcava le terre del villaggio separando la scuola e alcune case dal resto del centro abitato. Con le loro pallottole, le sue e quelle dei compagni appostati su altri terrazzi, voleva far credere agli ebrei che la difesa era sostenuta dalla scorta di un buon numero di munizioni.

Un trucco però che sarebbe stato scoperto di lì a poco, con le loro ultime cartucce. La notte era piena di luce. Gli albicocchi e i mandorli del suo e di giardini vicini erano piccole stelle bianche che stellavano quella notte, e altre notti. Stelle come occhi innocenti sulla tragedia, ignare. Davanti a lui, oltre i binari, la scuola dove faceva il maestro sembrava un deserto morto, adesso, ben lontano dall’amore per la vita che cercava di inculcare nei suoi piccoli allievi; un posto arido, in disprezzo delle storie che raccontava prima dell’ora di ginnastica: “Guardate il monte, anche il monte sarà libero, saremo liberi anche noi”. Gli occhi salivano per la cima avvolta dalla luce del sole.

Sua moglie gli stava accanto sul tetto a terrazza e cercava di vincere il terrore delle bombe, e il loro bagliore, sul piccolo centro abitato. Sparò le ultime pallottole, e in risposta piovvero bombe e proiettili che fecero tremare le pietre della casa. Gettò via il fucile, ormai davvero soltanto un giocattolo, inutile. Non poteva pensare che non ci fosse più niente da fare. Nel pomeriggio qualcuno aveva detto o che erano in viaggio per Batir le casse delle munizioni. Era passato mezzogiorno, poi il pomeriggio e la sera, ma delle munizioni non c’era traccia. Se avessero potuto disporre delle armi, su ogni tetto si sarebbe levato un compagno della Guardia Nazionale.

Ahmad, con la sua escursione nei villaggi vicini, era riuscito ad ottenere solo qualche fucile con i proiettili che aveva in canna. Fucile contro cannone? Niente, o quasi. Girava per la terrazza conficcandosi le unghie nelle palme delle mani, impotente. Impotente davanti al fuoco. Guardò sua moglie. Stava piangendo. Aveva paura. Era la prima volta che aveva paura. Come se la mitraglietta scarica le facesse sentire che la resistenza di Hassan altro non era che una bambinata e che i ragazzi che aveva addestrato affannosamente erano solo dei pupazzi. Avrebbe mai potuto offrire qualcosa a sua moglie? Una parola per rassicurarla e per infonderle un po’ di forza? Senza un’arma sapeva che sarebbe morto nella sua casa come un topo in trappola. Non sopportava che Suàd piangesse. Quando lui la guardò esasperato gli disse solo due parole: – Hassan, il bambino? Omar? Proprio per Omar cercava di battersi, per i piccoli del paese, maestro di giorno e combattente di notte. Già, il suo bambino! La risposta era sulle barricate di cui ha bisogno chi combatte, e chi combatte ha bisogno di armi.

Gli balenò l’immagine degli invasori che festeggiavano una meschina vittoria ottenuta contro pacifici villaggi. Guardò sua moglie, sarebbero morti tutti e tre se non avessero preso subito la strada per Birak Sulayman, le Cisterne di Salomone. Lì avrebbe lasciato il bambino e la madre, insieme agli altri profughi, e sarebbe tornato indietro a fare qualcosa. – Vieni! Le prese la mano e scesero la scala insieme, si avvicinò al letto di Omar e lo tirò su. Dormiva. Sognava un giorno nuovo, felice, col sole della speranza. Si sarebbe riaddormentato tranquillo tra le braccia della madre. Vide sua moglie che apriva l’armadio; riempiva un fagotto di vestiti poi andava verso il tavolino e prendeva la foto del loro matrimonio.

E se ne andarono, la moglie col fagotto, lui con Omar. Se lo stringeva delicatamente al petto cercando di dargli calore con il suo affetto, in modo che non avesse paura né aprisse gli occhi su quella notte di terrore. Le pallottole avevano smesso di fischiare e neanche i cannoni tuonavano. Gli ebrei avevano forse capito che era inutile sparare sul villaggio disarmato. Forse risparmiavano munizioni o si riposavano in vista dell’attacco finale. Avrebbero preso Batir, disarmata sul fianco della valle, scendendo dalle loro posizioni sul monte. Hassan si voltò verso casa sua. I muri bianchi erano impregnati dell’argento della luna e il profumo dei fiori del mandorlo li purificava con generosità primaverile. Le pietre con cui la sua casa era fatta venivano dalle cave della montagna, portate dai suoi avi. Aveva piantato il mandorlo il giorno in cui era nato Omar.

La pianticella era cresciuta, verde. Le metteva accanto suo figlio e diceva: – Vediamo chi di voi due è diventato più alto, il mandorlo o tu? La moglie si era voltata come lui, i loro occhi si incontrarono e in un attimo richiamarono una storia di sentimenti. Cominciava quando l’aveva conosciuta, studentessa a Gerusalemme, poi, innamorato, l’aveva portata in quella casa e con lei, fianco a fianco, avevano piantato il giardino, lo avevano riempito di alberi e fiori, avevano messo su famiglia, gioia e amore. Sì, stavano lasciando la loro casa, nido bianco, ogni pietra una storia da raccontare. Suàd singhiozzò. Lui tentava di restare calmo, trovando il coraggio del calore del corpo tenero che portava. Affrettarono il passo. La strada era vuota, le case immobili come monumenti di un vecchio cimitero, gli alberi erano le uniche espressioni di vita. Improvvisamente fischiarono le pallottole. Gridò a sua moglie di gettarsi a terra, si chinò anche lui e rimasero così per qualche istante, fino a che le pallottole tacquero. Si misero in piedi: Hasssan si voltava cercando di capire la direzione da cui provenivano gli spari quando il silenzio della notte fu lacerato da una bomba: gridò a sua moglie di correre. Corsero via insieme fino a che si accorse che lei era stremata. Sollevò un poco la mano sinistra quasi anchilosata, nel tentativo di farla riposare, e sentì qualcosa di caldo che la bagnava. “Che fosse stata colpita?”

La mosse, ma non c’era traccia di ferita, non sentiva dolore. Tremò: “Che fosse Omar?” Soffocò l’agitazione. Il minimo sospetto avrebbe paralizzato sua moglie. Strinse a sé il corpo del piccolo e prese a camminare così velocemente che lei non riusciva a stargli dietro. La distanza tra loro era cresciuta tanto che la sentì chiamare. La sua voce era acuta, triste, spaventata. Le rispose con voce soffocata senza voltarsi: – Sì, sono qui. L’aspettò finché non fu abbastanza vicina, poi le voltò ancora le spalle e riprese a camminare. Voleva liberarsi di lei in qualche modo, ma la sua voce lo inseguiva: – Ti sarai stancato di portare il piccolo, dammelo! Stava piangendo, non rispose e non si voltò alla sua voce che gli penetrava nella schiena: – L’aria è fredda, prendi questa coperta e avvolgigliela intorno!”

Prese la coperta senza lasciare che gli vedesse la faccia, vi avvolse il piccolo e corse via. Si allontanava dalla sua voce e lei lo chiamava: se l’avesse saputo sarebbe morta sul posto. Avrebbe cercato da sola la strada, con le folle di profughi. Piegò a destra, si addentrò in una strada laterale. Si fermò, sollevò la coperta e scoprì il piccolo corpo immerso nel sangue. Venne afferrato da una carica di stati d’animo in cui l’amarezza e il dolore somigliavano all’odio. Adagiò il bambino sulla terra. La luna era già calata e i colori si facevano rossi. Sembrava un sole, a ovest, e avvolgeva il cielo di luci magiche. Apparvero i tetti quadrati delle case di Birak Sulayman. Si chinò sul tenero viso, a baciarlo, parlargli, chiamarlo, finché la voce non gli rimase in gola, le lacrime si esaurirono e il bruciore gli infiammò gli occhi. Riprese a scrollare il piccolo per riportarlo al miracolo della vita, ma le ciglia non battevano sulle palpebre socchiuse, su quegli occhi che erano stati vivi…per i quali aveva piantato il mandorlo…aveva preso il fucile. Si guardò intorno, poi piegò verso i giardini di mandorli e rimase a lungo vagando con lo sguardo per cogliere un albero generoso. Vi si diresse e adagiò il bambino ai suoi piedi. Preso un ramo, lo spezzò e con quello si mise a scavare la terra con un movimento circolare, sempre più ampio, per ospitare il piccolo corpo inerte. Dopo averlo coperto con la terra, manciata, dopo manciata, si fermò un istante e poi scrollò l’albero che ricoprì la tomba di stelline bianche. Non aveva nessuna preghiera, il rancore lo rendeva muto. Si trascinò via, camminò facendosi strada tra le folle dei profughi, cercando di rimanere calmo, di non inciampare nelle pietre della strada, sul braccio una piccola coperta umida, che fino a due ore prima sapeva non essere stata rossa.

Aldo Gabrielli, dizionario dei sinonimi e dei contrari (Mondadori, collana Edizioni Scolastiche): il verbo è “amare”. Perché lo cerco non è così ovvio come può ritenere ogni rappresentante dell’umanità che almeno una volta l’ha coniugato al singolare, nella prima persona. Mi è piaciuto andare oltre la ‘normalità’ del sentimento celebrato da poeti, scrittori, cineasti, fidanzati, sposi, amanti, ma perché? Nel fitto della nebbia che la nostra psiche respira da mesi di solitudine, spesso intimorita dai bollettini dei virologi, non di rado terrorizzata dal devastante incombere delle morti senza lo sguardo compassionevole di un figlio, della compagna, di un prete, nella mente affaticata ecco l’immagine di un tratto di mare limpido nel golfo della memoria non contagiata. E leggo: “amàre, nel significato di piacere, desiderare, volere. Ai puristi non va giù che si connetta a còse materiali come il gioco del calcio, il cinema”. Agli accademici della Crusca sembra eccessivo usare ‘volgarmente’ il verbo riferito si sentimenti del cuore, agli affetti. Per analogia non è gradito nelle espressioni “Amerei vederti allegro”, “Amerei starmene solo”. E Boccaccio? “Io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni…”. Insomma l’amore.

Nella notte appena sfumata, piena di un sogno dettagliatamente strutturato, all’esordio di un mattino assolato, sonoro per foglie di alte palme scosse da scirocco sahariano, mi specchio nella profondità di un amore infinito, in un affetto che il crisma della sobrietà giudicherebbe fuori controllo. Trasgredisco al rigore che un vezzo da capelli bianchi assegna al tempo appena a ridosso del risveglio, alle due ore al computer, alla sua lentezza di vecchia macchina dello scrivere, al dannato incidente di percorso del black out di protesta del portatile anagraficamente logoro, che spegne il desktop per non aver collegato il dispositivo all’alimentatore. Il default si deve all’esaurimento per senescenza della batteria e non mi decido a legare al polso un nastrino di avvertimento per sostituire lei o il portatile.

Il misuratore domestico della pressione conferma quanto intuisco se poggio una mano sul petto: il battito non è quello produttivamente lento di Fausto Coppi, grandissimo campione anche per questo. Pulsazioni oltre i cento al minuto e temo che non torneranno presto ai sessantacinque della normalità.

Carezzo la copertina plastificata della pubblicazione che il Comune di Napoli, in concomitanza con il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ha diffuso gratuitamente in migliaia di copie. In grande dimensione campeggia la stella a cinque punte, inserita nella ruota dentata e incoronata da rami fronzuti. Sovrasta il titolo “Costituzione della Repubblica Italiana. È di questa meravigliosa espressione di italianità che il sogno notturno ha vestito sontuosamente l’attesa a lungo desiderata di un amore non subordinato alla fisicità. Le parole scolpite nei 139 “articoli” e in calce nelle 28 “Disposizioni transitorie e finali” si nobilitano con le firme di tre ‘monumenti’ del più alto livello istituzionale dell’Italia che si lascia alle spalle il devastante ‘Ventennio’: Enrico de Nicola, che divenuto Presidente della Repubblica si recava al Quirinale in autobus, Alcide De Gasperi, illuminato Presidente del Consiglio e Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente.

Come reprimere l’affetto per la loro opera che il mondo ha promosso come altissimo esempio di saggezza democratica? E non reprimo, anzi

Il colpo di fulmine è immediato. Mi sono fidanzato con il lavoro quando non ero ancora entrato nella cosiddetta maggiore età e in quella stessa stagione, che oltrepassa l’immaturità, ho letto “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” (articolo numero 1): magica simbiosi.

L’affetto per questo nobile gancio con l’identikit migliore dell’umanità nasce con il crisma dell’ammirazione e matura progressivamente, fino allo stadio della passione pulsante. Certo, si alimenta di suggestioni emotive, proprie di una felice coincidenza con le aspettative coltivate dall’età della scuola primaria, allorché rispondevo “giornalista” alla domanda “Che vuoi fare da grande?” Perciò troppo facile l’innamoramento per la prima idea di democrazia messa nero su bianco con la carta costituzionale.

Cuore e anima si gonfiano di amore puro, ma corposo, per le poche righe che più avanti sistemano su un fil rouge teso dal monte Bianco alle alture della Sicilia la pari dignità degli italiani, maschi, femmine, omosessuali, bianchi, neri, gialli, cristiani, musulmani, atei, ricchi e poveri, fondamento del laico principio della corrispondenza paritaria di affetti. È amore corrisposto e se no, è amore a tempo? Con pazienza lo accerterò.

“Dovunque il guardo giro, immenso Dio ti vedo” è l’elevato pensiero di Pietro Metastasio nel pieno di un idillio con la sua cristianità di sacerdote… “nell’opre tue t’ammiro, ti riconosco in me”. Avrebbe esternato pensieri analoghi se Esternerebbe simili pensieri se avesse scoperto che quell’immensità non impedisce la drammatica trasgressione dell’Italia, ma di più, del mondo, al saggio egualitarismo della Costituzione?

Cancello in fretta questo moto di scetticismo anti cartesiano, altrimenti come legittimare il trasporto per gli altri suoi centotrentasei articoli? Resta in sottofondo la memoria del ‘cogito ergo sum’, che in questo giorno infausto della pandemia fa pensare al percorso ad ostacoli che sconnette la straordinaria intenzione all’eguaglianza universale dalla dura realtà. La falce perversa della morte si è preso la magia di Ezio Bosso e non per colpa del Covid-19. Distrugge pensare al perché della sua tragica assenza, al chi, per indecente, irrisolvibile mistero, ha sequestrato e poi strappato all’umanità il genio della musica, già punito con il male che l’aveva menomato. Per lui una carta costituzionale realizzata dovrebbe includere un articolo centoquaranta a garanzia dell’indipendenza del bene e del male dall’ineluttabilità del cosiddetto fato.

L’afflato del laicismo solidale, tollerante, equidistante, libertario, dell’ottavo articolo si libera d’incanto delle scorie del maledetto Ventennio e ammonisce: “Tutte le confessioni religiose (diverse dalla cattolica) sono egualmente libere davanti alla legge. Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne il culto in pubblico o in privato (articolo 19).

Mi aggredisce una uova stilettata al cuore, già trafitto dalla precedente delusione. Scuole che discriminano i bambini di religione musulmana, aree del Paese che vietano i luoghi di culto non cattolici, aggressioni e violenze in danno di persone con la pelle nera e culture altre. Non s’acquieta completamente l’accelerazione del cuore, ma denuncia un rallentamento, che non pronostica niente di buono. Perché si somma alla gelosia per uomini e donne privilegiati a cui per speciali contingenze è dato vivere in sintonia con il dettato della ‘Carta’. Non è meno dolente l’immagine che rimanda l’osservatorio puntato su mari, colline e monti, paesi e città del Paese orfani di amorevole attenzione. La Repubblica, così detta la Costituzione (articolo 9) “Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” Ma come? E la cementificazione selvaggia, l’aggressione di gas tossici, l’indistruttibile violenza della plastica, i micidiali disboscamenti, le terre dei fuochi? Tutto negato dal peggio della modernità.

Mi riconduce al sentimento primitivo il respiro appagante di un nobile pensiero sull’accoglienza. Recita così: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’esercizio effettivo delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Intanto, il Mare Nostrum racconta calvari, tragedie, morti, ma anche speranze, voglia di vita, solidarietà, di chi propone respingimenti, porti chiusi, repressione e di chi salva donne, bambini, persone, dal naufragio. E così, anche il decimo articolo è alle mie spalle.

Poco da dire sul dettato che ripudia la guerra (articolo 11). Non è la neutralità, ma fa bene al cuore.

Andare oltre è l’occasione per ricordare un, o meglio, il maestro Albero Manzi che poco dopo l’esordio italiano della televisione decise che non era compatibile con il futuro del Paese l’analfabetismo di metà degli italiani e insegnò loro a leggere e scrivere. Nell’incipit di una sua raccolta di intensi versi si legge “Posai nuda, senza orpelli, per cantare un’umanità nuda, la rabbia del silenzio, l’orrore dell’indifferenza, la ferocia del potere, la forza vivifica della pazzia cui l’amore per la donna, pieno, totalmente appagante, conferisce consistenza e speranza”. Versi editi postumi, a cura di una meravigliosa compagna di vita: “Ho imparato dalla saggezza della gente a capire il male vero, quello che uccide. Dalla saggezza della gente ho imparato a sopportare il fratello che urla, che implora… A dividere pane, gioia, musica, carezze. Dalla saggezza della gente ho imparato a tener dentro di me dolore, ansia, collera…a ribellarmi al potere soffocatore, a ribellarmi al potere strangolatore, a ribellarmi al potere che uccide. Dalla saggezza della gente. Solo dalla saggezza della gente”.

Il risveglio è brusco per responsabilità dell’articolo numero trentasette. Afferma che le lavoratrici, nelle attività alla pari con gli uomini, hanno gli stessi diritti, le stesse retribuzioni. È utopia infinita. La società, nell’insieme delle sue componenti resiste nell’imporre ideologie opposte, proprio a partire dal principio di eguaglianza appena ricordato.

Un nuovo scossone all’innamoramento per quanto è incluso nella preziosa testimonianza di saggezza dei padri costituenti lo provoca l’inascoltato articolo 53: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione delle loro capacità contributive. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. La fitta al cuore arriva dagli analisti di settore: “L’evasione fiscale degli italiani ha dimensione tale che se azzerata farebbe dell’Italia un paese ricco, in ottima salute finanziaria. La contribuzione con criteri di progressività? Oggetto di pio e irrealizzabile desiderio, faccenda estranea al tavolo dei governi che si succedono strizzando l’occhio a chi nasconde le proprie ricchezze nei paradisi fiscali”.

Non dico che l’amore si affievolisce e, anzi, cresce d’intensità per il ‘contratto’ di altissimo profilo con gli italiani, purtroppo disatteso. Ma aumenta di pari passo anche l’ostilità (non l’‘odio’, parola estranea alla Costituzione), per inerzie e omissioni di chi rema contro la sua piena attuazione, che farebbe dell’Italia il Paese della correttezza istituzionale, del progresso compatibile, della giustizia sociale, del rispetto per il suo mare, i suoi tesori ambientali, la sua storia, l’identità di paradiso terrestre.

Mi sfiora l’idea del tradimento, della separazione, del divorzio dall’ ‘amato bene’. La tentazione è forte se assimilo il monito proposto dal fondamentale articolo cinquantaquattro: “Tutti (tutti!) i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di compierle con disciplina ed onore”. Onore? Quanti disonorevoli deputati e senatori, quanti ministri e sottosegretari, governatori, sindaci, manager pubblici si identificano nel postulato di questo articolo? Quale delle ‘repubbliche’ che i posteri ricorderanno per l’obbrobrio di tangentopoli e delle sue repliche, perfino peggiori, è compatibile con l’occupazione senza vergogna di scanni parlamentari, presidenze di Enti e imprese statali? È possibile glissare sulla rapacità di speculatori senza scrupoli che giocano sporco sull’emergenza coronavirus e la domanda di indispensabili presidi sanitari, sulle grinfie delle mafie che investono valanghe di denaro accumulato con profitti fuori legge per espropriare imprenditori in crisi?

C’è un ultimo dilemma a complicare la mia relazione emotiva e sentimentale con il documento che in copertina propone i nomi di De Nicola, De Gasperi, Terracini, i tre firmatari di un nobile lavoro collettivo. Il titolo XII delle disposizioni transitorie e finali, che concludono il testo della Costituzione, giustifica l’aggettivo attribuitele di “incompiuta”, per gravi negligenze ed omissioni, che impediscono la sua piena attuazione. “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. E Casa Pound, Forza Nuova, Fratelli d’Italia?

Forse mi arrendo alla rassegnazione. Mi sono innamorato di una meravigliosa idea, senza fare i conti con l’invidia di chi la contrasta e opera sul disamore, che nel vocabolario dei matrimonialisti si avvale dell’espressione onnicomprensiva dell’incomunicabilità.

Il cuore, ferito, sceglie un futuro di solitudine, il celibato, la rinuncia alle pene d’amore, ma forse è solo conseguenza dello sconforto al risveglio da un brutto sogno così simile alla realtà.

Antonio, ‘Nino’ per me e un piccolo clan di amici, non ha mai osato contestare il soprannome di ‘capa pazza’ che Marta gli ha cucito addosso come un abito di sartoria. L’abituale appuntamento della funicolare di Chiaia, alle 10-10.30-11, per lui è l’opportunità permanente per stupirci. Mai una lira in tasca, per esempio, ma un giorno arriva nello spiazza antistate l’edicola, nello spiazzo della funicolare, alla guida di una ‘600 Abarth’ con doppia marmitta di scarico rumorosa quanto il biturbo di una Ferrari in fase di accelerazione. In testa, il funambolico scansafatiche della compagnia, esibisce un cappellino rosso Ferrari.

“Nino com’è, a chi hai rubato questo piccolo bolide?”

“Arrubbato è ’a parola giusta. Mò ti spiego. Me sò abbabbiato zì Tommaso, ca manco sapevo si era ancora vivo. Mia madre, sua sorella, mi ha obbligato a fargli visita. Và m’ha detto, ti conviene. Siamo i soli parenti e stàa chino e sorde. Ma assaie e non camperà a lungo, va!”

“Tu ci sei andato e zio Tommaso è arrivato al capolinea. Allora?”

“Novanta milioni ci ha lasciato. Sessanta a me, unico nipote”

“E ti sei accattato l’automobile. Bravo. Mò possiamo scorrazzare dove ci pare”.

“Stamattina ce ne andiamo sul Vesuvio. Chi ci sta?”

Cinque sì, anche se la 600 sarebbe omologata per quattro posti.

Arriviamo a destinazione non senza difficoltà, dopo aver imboccato un paio di vie di accesso alla montagna senza sbocchi.

“Okey Nino, mò spiega: perché siamo venuti qua?”

Nessuna risposta. L’auto si accosta un paio di volte a case di contadini della zona e chiede “Sapete dov’è la casa di Ernesto D’Avanzo?”

Seguendo la seconda indicazione imbocchiamo una stradina di campagna, non asfaltata, che s’incunea tra vegetazione rigogliosa, incolta.

“Ci siamo. Questa da ieri è casa mia”

“Nino, casa mò, me pare nu poco esagerato. Casarella, va..”

Casarella, vero, ma intorno un orto ben tenuto, ricco. Sul tetto la parabola della Tv e davanti all’ingresso due grandi anfore con piante di bouganville. All’interno tutto lascia intendere che la casa è pronta per essere abitata e nel frigo c’è abbondanza di ogni ben di dio.

“Overo, Nino, chesta è casa tua?”

Guelfo De Rita, maturo ricercatore del Cnr, ha firmato un contratto decennale con la facoltà di biotecnologie dell’Università di Palo Alto, in California. Parteciperà a un’indagine su alcune malattie rare. Deve affrettare la partenza per gli Stati Uniti dove è imminente il via al progetto di ricerca. Ne parla con Nino che gli ha detto dell’eredità e gli propone di comprare la casa ai piedi del Vesuvio.

“E io, cari miei, ho detto sì. Voglio scrivere un libro che faccia innamorare i lettori del vulcano più suggestivo del mondo, incastonato com’è nella suggestiva corona della costa napoletana, narrata più volte da figli e figliastri. Un editore di Cava dei Tirreni mi ha già versato un anticipo sulle vendite. Questa casetta è l’ideale per lavorarci in pace. A proposito Federico, tu sei un grande lettore di libri, vuoi leggere e dirmi che ne pensi della premessa che ho buttato giù nei giorni scorsi?”

“Hai capito l’amico Fritz? Nino ti abbiamo sottovalutato…ma sì, fammela leggere, mi fa piacere”

[Il grande vecchio ha respiro lento, profondo. Il suo alito sfiora i picchi di lava pietrificata, li scavalca, accarezza la macchia di verde rigoglioso, vigoroso, che si fa strada nei minimi corridoi di terra fertile, tra un masso e una cresta nera svettante, si nutre dei profumi rari di fiori spontanei, odora ciuffi di fragrante rosmarino, avvolge i casolari di chi all’ombra del vulcano c’è nato e ha osservato con timore i rivoli di magma incandescente dell’ultima eruzione, di chi continua a spaccarsi la schiena per strappare frutti alla terra brulla, ma generosa, fertile per inondazione salutare del sole. Il fiato arriva fievole a lambire la risacca del mare sui cui il monte si proietta, obiettivo di milioni di scatti di turisti e napoletani ugualmente in amore per Vesuvius. Il più raccontato vulcano della Terra, lo ammonisce chi monitora la sua vita, incautamente è ritenuto spento, incute rispetto per il suo profilo imponente, mutevole nei secoli, eruzione dopo eruzione. L’immaginario collettivo lo racconta come un corpo languidissimo e macho poderoso, ma da visto da altra prospettiva femmina prosperosa o vergine puttana, corteggiata. Lui energia riproduttiva, lei utero prolifico che si concede facilmente, comunque maestoso monumento della natura, una delle due vette ridimensionata della falce del tempo, icona cantata in sordina e a voce spiegata. Il cono superiore sovrastato da sbuffi di nubi a imitazione dei vapori eruttivi, fissato da Nikon e Canon suggestionate dal furbo bluff del monte. I suoi figli, testa bianca per attraente senilità, condividono l’orgogliosa estraneità alle facili aggettivazioni di scrittori dilettanti allo sbaraglio. I nuovi iscritti al club dei vesuviani si accoccolano sui versanti che precedono il cratere per cucirsi addosso l’emozione di sentirlo brontolare].

“Nino, ma sì nu poeta…congratulations, bravo…bravo”

“E grazie, allora pozzo continuà, grazie”

Arrivata in Italia una coppia di turisti cinesi si ammalano gravemente. I sintomi sono inequivocabili. Febbre alta, tosse, mal di gola, crisi respiratoria. Allo Spallanzani nessun dubbio, è il primo caso conclamato di coronavirus del nostro Paese. Il primo, preoccupante, di trasmissione secondaria dà il via a un focolaio di contagi, che blinda il comune lombardo di Codogno nella prima zona rossa. Non è ancora la prova della pandemia che colpirà i cinque continenti, ma in tutta Italia serpeggia la paura di finire in rianimazione, intubati, in fin vita. Nei giorni successivi la macchina degli interventi sanitari assume decisioni definite ‘drastiche’ e la prospettiva di chiudere i flussi interregionali, spinge molti italiani a rientri affrettati nei luoghi di origine. Le restrizioni si susseguono, fino al divieto di libera circolazione.

Uno degli ultimi protocolli vieta di uscire di casa senza motivazioni gravi e molto circoscritte. Nino non ha completato il trasloco dall’abitazione napoletana alla casa del Vesuvio e teme di non poterlo fare, impedito dalle decisioni del governo. In un paio di grosse valigie stipa quanto pensa gli può servire nel nuovo alloggio e in piena notte, sperando di evitare i controlli, dirige in auto su Ercolano di dove iniziano i tornanti del vulcano.

Quando parcheggia l’auto al buio, sotto la tettoia di canne, il cronometro ‘Boss’, regalo della madre, pesante una tonnellata, segna le 4 e 48 e la luna non è ancora tramontata del tutto.

Gli abbaglianti illuminano le strette curve che s’inerpicano pericolosamente e nei tratti tra l’una e l’altra si stagliano dal fondo della boscaglia i profili delle dieci istallazioni che la Regione ha commissionato a nomi eccelsi della scultura. Una delle statue, rigorosamente in pietra lavica, è firmata da Lello Esposito. Il suo Pulcinella guarda con appassionato interesse il cono tronco che in cima al vulcano.

C’è aria di chiuso nella piccola casa nascosta dal vigneto a piante alte, criticate da un famoso enologo toscano. Richiesto di valutare la qualità del ‘Lacrima Christi’ la boccia e non per il suo pregio di uva da vini corposi: l’errore, spiega, è nell’eccessiva altezza delle vigne. Dimezzate, maturerebbero in anticipo e farebbero del vino del Vesuvio un competitore alla pari con il migliore Bordeaux.

Il neo ‘vesuviano’ si libera dei bagagli e del quadro di grande formato, dono di Vito, artista eclettico, che racconta il vulcano come convergenza di colori intensi dalla base al vertice. È destinato alla parete alle spalle del piano di noce dove Nino conta di lavorare al computer per completare il manoscritto da inviare all’editore. È troppo tardi per mettersi sotto le coperte e recuperare le ore di sonno perdute. Schiaccia una dopo l’altra due cialde nella caffettiera minibar e sprofonda nella poltrona che imita la famosa ‘Frau’. L’ha comprata nello show room che propone il rifacimento ai limiti del plagio di oggetti d’arredamento famosi. Si è ‘tolto lo sfizio di comprare un esemplare di ‘Comodità’, al ritorno da un’escursione nelle Marche, organizzata dall’ordine napoletano degli architetti, per toccare con mano l’intelligenza imprenditoriale dell’azienda che produce la ‘Frau’ e la qualità delle relazioni sindacali. Il direttore tedesco della fabbrica, edificata al centro di una vallata verde, ha progettato un sistema antincendio che utilizza l’acqua di una grande piscina a disposizione delle famiglie dei dipendenti. Fantastico.

Nino sprofonda nella poltrona e dalla tasca laterale della valigia in pelle, tira via l’agenda formato A4 con le sue iniziali in metallo dorato. Tra la copertina del notes e le prime pagine con il calendario e i dati personali, ripiegate in quattro tira via le pagine di una breve introduzione. Le rilegge mentre fa colazione.

[Due estrosi performers francesi incontrano il sindaco di Napoli e l’assessore alla cultura, storico cultore di vulcanologia. Presentano una proposta singolare e forse un po’ goliardica. “Pensiamo di simulare il risveglio del Vesuvio, il prossimo 31 dicembre, per festeggiare in modo originale l’arrivo del nuovo anno”. Ottenuto l’ok si affidano allo scenografo dell’Opera di Parigi e, a famosi artificieri cinesi.

Hanno dalla loro la clemenza del Meteo che regala al Capodanno una serata di aria tersa, di rara visibilità, grazie a intense folate di tramontana. Dal cono eruttivo del vulcano si leva uno sbuffo candido, poderoso, striato di rosso a simulare lingue di fuoco. C’è un’idea di fondo nell’exploit della finta eruzione e la raccontano i due francesi, durante un incontro con la stampa nella grande sala adiacente all’ufficio del sindaco: “Napoli è tappa obbligatoria per le città galleggiati che portano a spasso nel Mediterraneo molte migliaia di turisti di tutto il mondo. Per esperienza personale sappiamo che l’immagine del Vesuvio, imponente, custode della magia di un golfo strepitoso, affascina con la suggestione di qualche attimo, giusto nel tempo di approdo e del tuffo di poche ore nel tour urbano del centro storico, per cogliere al volo la bellezza dei suoi tesori, la sua unicità di città caleidoscopio. Questo standard di frettolosi turisti, a volte, unisce all’imprescindibile vista al Cristo Velato della Cappella di Sansevero, un’escursione lampo sul Vesuvio. Non sapranno mai che questo vulcano è la cattedrale di un culto da praticare in tempi e modi riservati alla maestosità di musei, che è monumento e solennità, pietra da toccare, fiori e piante invidiate da Chanel, orti di infinita fertilità, spazio per residenti alati stanziali e gufi grufolanti, cicale roche, ragni sontuosi. Vesuvio è lacrime di Cristo. Scivolano sul palato senza consistenza, toccano le pareti in discesa goccia a goccia con il loro rosso regale, stordiscono, hanno sapore di ghiande sfrigolate, odore di rose della Rubisonda. Certo, è leggenda, mito, suggestione, mistero. E allora devi camminare sul magma che viaggia dieci metri sotto i tuoi piedi e scalda l’anima, infila energia nel fiume di vene e arterie. Chissà che la vista dell’eruzione virtuale del vulcano di Partenope non convinca gli organizzatori di crociere, sicché programmino finalmente una sosta settimanale nelle acque che in verticale ammirano il profilo del ‘Grande Vecchio’….]

Stanchezza, stress da fuga illecita dalla città blindata, incognite sull’esodo in spazi di solitudine, dubbi sull’impegno di raccontare il Vesuvio, il broncio della mite Elda, abbandonata a una clausura nostalgica, ai bollettini di Borrelli, alla conta di morti, contagiati e guariti, l’idea di un estate senza mare, la replica infinita di fiction, talk show, film di Totò, Peppino e la malafemmena, di 007, Rita Pavone e Gianni Morandi quindicenni, della storica, spettacolare Italia-Germania, dell’oro di Barcellona del Settebello: più di dieci mozziconi di Malboro nel posacenere, un quarto della bottiglia di Finocchietto sparita nella stomaco, la testa reclinata sulla spalla sinistra, quel maldetto ginocchio anchilosato, il russare da ippopotamo che ha digerito malissimo e…un gufo che gufa, la finestra che lascia passare spifferi di umidità al 91 percento. Finalmente dormire, fino allo sfinimento da sonno.

Dormire? Ai primi respiri profondi il ‘vrrr, vrrr’ di un motorino arriva nitido dallo stretto sentiero che sii congiunge alla provinciale.

[A quest’ora chi viene a rompere?]

Nino scosta la pesante tenda. Lo scooterista ha il viso nascosto dal casco integrale. È irriconoscibile, ma che sia donna è certo. Il giubbotto di pelle è rigonfio all’altezza del petto e le scarpe con il tacco di cinque centimetri non lasciano dubbi.

“Stavi dormendo? Ho paura di averti svegliato, perdonami”.

“Elda, e che ci fai qui, a quest’ora?

“Sono scappata da Napoli, l’ho deciso due ore fa. Mio fratello Mario è risultato positivo asintomatico al test del conoronavirus e hanno messo in quarantena tutta la famiglia. Non avrei sopportato altre due settimane di clausura dopo un mese di isolamento. Ma poi, è da tanto che non stiamo insieme e ho fatto come te, ho sfidato i controlli. A quest’ora ce n’è di meno. Mi è andata bene e sono qua. Spero solo che Mario non mi abbia contagiato”

“Spera anche che non ti cerchino qua. A casa qualcuno sa di questa casa?”

“Vagamente: sanno che è in zona Vesuvio”.

“Meglio di no, almeno fino a quando non saremo sicuri di poterlo fare senza rischi”

“Ma sì, abbracciami, credi davvero che potremo rispettare la famigerata distanza sociale? Dicono che il sole è nemico del Covid e qui di sole ne abbiamo anche troppo. Vieni qua…”

“Nino, ma che fine hai fatto? Addò stai, che fai, ‘o virus comme te porta?”

Accanto al messaggio sulla segreteria dello smartphone la scritta ‘non ascoltato’ se ne sta lì da tre giorni. La risposta è spiazzante.

“Ragazzi, non ci sono. Se ci fossi non risponderei. Aggia penzà a scrivere e ’o Vesuvio è na muntagna tosta, nun me fa concentrà’. Non so se continuerò a raccontarlo, mi spiazza più del virus. Stanotte il letto ha ballato, la terra ha ‘murmuriato’, luce e telefono sono andati in tilt. Se la montagna si sveglia faccio la fine dei topi. Ma chi cavolo m’ha cecato e venì ‘mbraccio a stu vulcano? Comunque, lassateme stà e grazie”

Poi in un orecchio di Elda

“Nennè, qua stiamo in grazia di dio e fin quando saremo prigionieri del pericolo pandemia è il Vesuvio è l’isola deserta per la nostra luna di miele. Trova un aggettivo per tutto questo”.

“Aggettivi? Boh? Penso piuttosto a ‘Meraviglioso’ di Modugno: “…Ma come non ti accorgi, che tutto intorno a te è meraviglioso…Tu dici non ho niente…ti sembra niente il sole, la vita…l’amore?

“Io e il vulcano”: Finito di stampare il 2 giugno 2020. Diritti riservati. Ogni riferimento a persone e fatti è frutto della fantasia dell’autore. Il 50 per cento delle vendite sarà devoluto alla direzione del Parco Vesuviano

Il Covid-19, se s’intrufola nel sistema circolatorio dei pipistrelli è probabile che faccia poco danno, che li costringa a riposare a testa in giù, sicché il sangue affluisce al cervello e affoga il coronavirus. L’imprevisto è nel sonno dell’uccello. In piena fase ‘rem’ respira a bocca aperta e permette che i virus sopravvissuti, in libera uscita, contagino l’umanità. Il suo vagare per ogni dove imprigiona, sottrare chance alla vita di relazione, li ricicla in bisogno di socialità con il chattare, il ripristino del dismesso audio-video Skipe, da condividere con amici e parenti.

X-Y, amico mio, dove sei, che fai, a che pensi, sei sempre appassionatamente teologo? Vengo da te, come dice con uguale intonazione l’intero pool di conduttori/ici televisivi nel cedere il microfono a ospiti e inviati e premetto:

ma poi, dubitare non è il sale raffinato della vita? E io dubito.

Scrivere. Scrivere a chi stimo, a una delle persone che potendo scegliere avrei voluto che mi avesse concepito. Lui è intelligenza contemporaneamente creativa, ponderata, riflessiva, intuitiva, generosamente altruista, onnicomprensiva, pronta, assorbente, volenterosa, progressista, anticonformista, combattiva, pacifista, laica, ottimista, leale, didattica, disponibile, riflessiva, audace, spavalda, semplice e complicatissima, strutturata, extra terrestre, funambolica, rispettosa, enciclopedica, selettiva, fluida, interattiva, vulcanica, meditativa, eloquente, metafisica, poetica, inclusiva, produttiva, essenziale, avvolgente. Molto, troppo? Ma no, è tutto questo!

La premessa. Il malefico Covid-19 scompagina la quotidiana scansione del tempo in giorni, mesi, anni e decenni. Comprime e dilata i normali intervalli 1-60 secondi di un minuto, i 60 minuti-720 minuti delle 12 ore, eccetera. Il tempo di queste deviazioni è irreale, o forse veritiero quanto il ‘rosario’ di attributi riconosciuti al genio di X-Y, la mia utopia di un padre che ho sognato di guardare incantato mentre sciorinava il suo saggio dire e dà ragione al teorema che la cognizione del giorno e della notte, del buio e della luce, del vento e della quiete, di ogni altra antitesi è viziata dal coronavirus, dalla quarantena. Diventa asincronico con la realtà anche il tic-tac della sveglia anni ‘60, aumentano i decibel del suo martellante scandire i secondi e rende arduo chiudere gli occhi per il riposo notturno. La veglia agevola però l’impegno al selfie di assoluzione del peccato commesso con l’eccesso di aggettivi dedicati al mio X-Y, al quale invio domande a lungo latenti e in post scriptum mi appello alla sua riconosciuta fama di tuttologo perché mi risponda ‘brevi manu’.

Nello scaffale, in posizione priva di logica per argomento o successione anagrafica, si sostengono a vicenda Prevert e il Purgatorio dell’Alighieri commentato da Fornaciari, illustrato da Aligi Sassu, ma attrae la copertina rossa della Bibbia, con scritte in oro. Nella prima pagina bianca, la grafia incerta di mia sorella, più giovane di tre lustri, racconta che in omaggio alla sua religiosità, noi tutti (quattro figli) abbiamo donato al ‘babbo’ il sacro libro di 2000 pagine.

…E creò Iddio l’uomo ad immagine sua; ad immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. E li benedisse Dio, dicendo: “Crescete e moltiplicatevi e popolate la terra ed assoggettatevela, signoreggiate”.

E siamo già a due o tre dubbi. Assoggettare, colonizzare, signoreggiare? Invito poco cristiano.

Con un atto di pura magia Egli fa spuntare nell’Eden Adamo (piaciuto il gioco di prestigio?) e voilà, stanco di esibire performance ma mago Thelma sradica dal petto della sua prima creatura una costola e piazza Eva nel paradisiaco giardino. Benché onnisciente e onnipotente, denuncia a quel punto del racconto una lacuna mnemonica da senilità avanzata. Dota di stupefacenti bellezze l’habitat dei due prototipi di umani, ovvero di un unico maschio e di una sola femmina, sicchè la povera Eva, messi al mondo Caino e Abele, per obbedire al mandato divino ‘crescete e moltiplicatevi’, pecca d’incesto. Si fosse negata alla copulazione contro natura il genere umano si sarebbe esaurito. Stranezze di padreterno: Eva, costretta a rapporti carnali con i figli, incorre nell’ira del suo creatore, ovvero del vero colpevole, il quale, al colmo dell’ingiustizia celeste, espelle lei e il compagno dal giardino delle delizie. Il misfatto crea tensioni e aggressività in Caino, deluso per l’assenza di femmine con cui procreare e lo spinge a commettere il primo fratricidio, in danno del mite Abele.

Mi assolvo dell’essermi arrovellato nel tentativo di capire quale arcano nasconda la conseguente involuzione della specie, testimoniata dal fatto che, a dire della scienza, il genere umano è derivazione di micro organismi, molto dopo di ominidi, cavernicoli, uomini scimmia prima di somigliare a quel che siamo. Adamo, Eva, Caino, Abele: il creatore li avrebbe esentati dal retrocedere con un salto all’indietro di miliardi di anni a microscopici individui unicellulari? Che ne pensi X-Y?

Poste a teologo mediamente edotti, le lecite contestazioni di una ‘leggenda’ che la Chiesa propone ai fedeli come incipit dell’umanità, le riposte sono state variamente evasive, in criptica altalena tra il ‘sì’, è vero, non c’è nesso logico nel racconto di Adamo ed Eva’ e il ‘no’, perché non si possono privare i fedeli del mito della Creazione.

La delusione per l’astuto svicolare del mio stimatissimo amico, che glissa, si coniuga con la vana attesa di argomentazioni di alto profilo e il perdurare di pavidi silenzi del gran capo della Chiesa in risposta alla domanda dei cattolici illuminati di svestire la fede di dogmi, misteri gloriosi e dell’ indisponente “è così e basta” spacciato per due millenni come imperscrutabile arcano.

“Tu X-Y, saggio dei saggi, onesto tra disonesti, raffinato intellettuale, di fede cattolica in dimensione di carità cristiana, s’il vous plait, illuminami, opera perché il mio insano razionalismo riceva dalla tua superiore intelligenza una lezione sofisticata sul perché “o ci credi o ci credi!”, e mi convinca che è lecito raccontare ai miei nipoti, senza arrossire, che rivisitato, il trapassato remoto insegna quanto segue: “è vero, ha credito per fede il mito della costola di Adamo che divenuta Eva ha partorito la sequenza nascere, crescere, parlare, cantare, giocare, amare e odiare, soffrire e gioire, procreare”.

Caro X-Y, ecco quanto occupa i miei pensieri in questo 27 Aprile dell’anno domini, rivelatosi stragista per responsabilità dei pipistrelli, a cui il deus del cosmo avrebbe potuto consentire di dormire come bravi cristiani, supini o su un fianco anziché a testa in giù, nella posizione che ha provocato la caduta dalla bocca spalancata del Covid-19. Dall’alto del tuo multiforme ingegno, se vuoi, colma il vuoto senza risposte dei miei smarrimenti. Purtroppo neppure il papa del coraggio riformista (sai a chi penso) osa fornire alle pecorelle smarrite e in astinenza di verità, versioni bonificate di miti e leggende. Nello specifico: perché l’Iddio del cielo e della terra, di più, dell’Universo, ha voluto che il primo abbozzo di uomo, al secolo Adamo, gli somigliasse, senza riuscirvi? Al posto suo, dimmi la verità, non avresti popolato l’Eden con un centinaio di baldi giovani e belle fanciulle in grado di garantire il futuro della specie senza trasgredire a sane leggi fisiologiche? Non vorrei esagerare con le richieste, dunque usa pazienza e dimmi in ultimo: perché introdurre nel destino del Pianeta subdoli esseri a loro modo viventi, quali sono i virus della peste, dell’Ebola, della Sars e da ultimo ma probabilmente non ultimo del Covid-19?

Trascorsa una settimana dall’invio dei miei punti interrogativi, il tuo silenzio potrebbe indurmi a preoccupazione per la tua salute. Mi informano però che te la passi bene e allora il timore muta, diventa consapevolezza del disagio che incontri nel rispondere alle mie provocazioni. Me ne faccio una ragione e tengo in quarantena i miei convincimenti. Convengo che dogmi e favole, tramandati di papa in papa, diffusi dai persuasori inviati in missione di reclutamento nei cinque continenti, sono linfa terapeutica di massa, per sanificare dolori ore e sofferenze spesso immeritati, accettandoli come proprietà riservata di un imperscrutabile disegno celeste. Convengo, ma con cautela. Capisco che parabole e versetti degli apostoli siano l’Elisir di buona vita per le vecchine raccolte in circolo a recitare il rosario, loro viatico per prenotare il viaggio post mortem in paradiso: ma per categorie di intelletto medio-alto, non sarebbe più adeguato un elevato discettare sul tema?

In fiduciosa attesa di decisivi approfondimenti, ti chiedo se, per quanto tu ne sappia, Bergoglio condivide lo psicodramma del primo miracolo dell’umanità generata dal ventre prolifico di Eva, costretta al primo tradimento coniugale dell’Universo e per di più consumato con l’incesto. Grazie.

Come uno ‘svezzamento’, via la timidezza: devo la liberazione all’intraprendenza di Laura (Carolina all’anagrafe), al suo disinibito corteggiamento, alla mia tuta da meccanico di bell’aspetto.

Che notte. M’infilo sotto le coperte allo scoccare dell’una dopo la mezzanotte, per antica dipendenza dall’ora ‘ics’ del sonno, tempo scandito ogni 24 ore da un segmento del ganglio che nell’emisfero destro aziona il drin-drin della sveglia, sempre nel breve spazio dei dieci minuti al di qua o al di là della prima delle ore piccole della notte, quando gli occhi sono pronti a chiudersi e la mente disposta al riposo rinnova il rito del rilassamento muscolo dopo muscolo, dalle dita dei piedi, su, su in tutto il corpo fino al viso. Accoccolato sul fianco destro il respiro profondo, regolare, asseconda l’esodo dallo stress accumulato con l’impegno a riempire in cabina di regia le pagine di cronaca del giornale, in una giornata convulsa che mi ha costretto a scompaginarle e a ristrutturarle a tempo di record per il sopraggiungere di eventi rilevanti.

Questa notte, in assenza di motivazioni ragionevoli, non riesce il clic mentale sull’interruttore ‘off’ con cui si ferma il flusso di pensieri che l’esperienza mi ha insegnato a rimuovere per preparare alla quiete notturna l’attività del cervello. Provo a contrastare l’inaspettata fase di disturbo assumendo un’insolita posizione supina, recupero il percorso appreso coltivando le sofisticate ‘speculazioni’ di Ericksson su comportamenti speciali in particolari situazioni. Ripercorro quanto suggerisce: sovrappongo uno dopo l’altro quello che la mente recepisce al buio, ad occhi chiusi e passo in rassegna ogni cosa presente nella stanza da letto, la miscelo con quanto arriva alle mie orecchie, il fruscìo delle lenzuola di lino, il tic-tac della sveglia, il suono lontano della sirena di un’ambulanza e per ultimo intreccio le due percezioni con quanto è presente nel subconscio: timori, disagio, previsioni, pentimenti, autostima. L’effetto auspicato è l’accesso alla trance positiva che concilia il sonno. Non stanotte. Non questa notte, tormentata da rimpianti per le conseguenze psicologiche di un’incoercibile incompiutezza della mia personalità.

Remo, per il mio status di timidezza ereditata dalle fragilità emotive di mia madre, è il volenteroso correttore di questa tara, ma non al punto di guarirla completamente. Alla veneranda età di diciannove anni mi porto ancora dietro le difficoltà di dare seguito a esplicite disponibilità sentimentali o solo per effimeri flirt di ragazze conosciute in più occasioni. Remo, a soli sedici anni, ha ereditato l’officina del padre, morto prematuramente e conoscendo la mia predisposizione per la meccanica delle auto, mi ha cooptato come socio. La sua intraprendenza è pari alla mia inettitudine e lo irrita non poco. Il locale dell’officina è molto più ampio di quanto occorra per la riparazione delle auto e abbiamo deciso di utilizzare la parte più interna come garage per pochi clienti di vecchia data.

Remo, con l’abituale sfrontatezza, corteggia senza fortuna una bella donna, non giovanissima, ma ancora molto attraente, separata dal marito, che non si direbbe votata alla riservatezza. Quasi certamente devo aver male intrepretato il tono confidenziale e il sorriso che mi rivolge, le banalità di frasi che mi rivolge con l’evidente pretesto di trattenersi con me, ma soprattutto le ripetute richieste a Remo che lo allontanano dal garage con la richiesta di comprarle le sigarette o la rivista ‘Chi’, la Settimana Enigmistica. Anche un imbranato quale sono capisce che sono tutti stratagemmi per liberarsi della sua presenza.

“Senti, alla mia età non si perde tanto tempo. Avrai capito che mi piaci”.

Ecco, la spregiudicatezza di questa donna rinnova la sensazione di panico che ho patito in circostanze analoghe. Per esempio quando nell’estate scorsa, nel bar dancing di Palinuro, Francesca, corteggiatissima ragazza della Roma bene mi ha invitato a ballare un ‘lento’ e si è stretta a me con l’immediato risultato di eccitarmi, che mi ha spiazzato, al punto da scostarmi da lei nel timore di apparirle privo di tatto. Sonja o non ha capito, o ha intuito il motivo del mio ‘rispetto’ e comunque, a conferma di aver scelto di spendere le vacanze estive nel sud dell’Italia, ha rapidamente deviato l’obiettivo di un flirt estivo su Mario, il mio esatto opposto in tema di ‘acchiappanza’, lo sport più praticato dai ragazzi della mia età nei luoghi di villeggiatura.

“Mi chiamo Carolina, ma ho ripudiato questo nome in favore di Laura, eh sì, in omaggio alla donna amata da Petrarca. Dammi del tu”

“Che c’è, ti metto in soggezione?”

“Bè, no…o forse sì”

Mi ritrovo in un attimo tra le sue braccia, spinto con le spalle contro una parete dell’officina. Sento il morbido del suo corpo generoso che mi avvolge e le sue labbra che premono sulle mie per aprirle. Vado in panico.

[Remo sta per rientrare e potrebbe fraintendere, pensare che sto abusando della cliente]

Per fortuna Laura si ferma lì e si distacca da me, giusto mentre Remo entra nel garage e fà il galante:

“Signora, ecco i giornali. Merito un premio?”

“Giovanotto, hai fatto solo il tuo dovere nei confronti di una storica cliente. Basta un grazie”.

“Porta la macchina fuori. Non amo le manovre difficili”.

Mette in moto e si sporge dal finestrino: “Questo è un mio biglietto da visita. C’è l’indirizzo e il numero del cellulare. Fanne buon uso. Quando stacchi da lavoro chiamami. Ti aspetto e ti farò provare un favoloso long drink, tipicamente inglese. Tre dita di Pimm, lemonsoda, frutta aromatica, menta e ghiaccio a volontà. Ti piacerà e poi, dispone magicamente all’intimità”.

[Ma tu vedi questa! Di donne spregiudicate Remo ne ha raccontate, più di una, ma Laura mi sembra che vada ben oltre un normale corteggiamento al femminile. Che faccio, dò seguito all’invito? Che incognite comporta questa ‘avventura’? Sarò all’altezza di quanto si aspetta questa assatanata?]

Via Garibaldi…vediamo numero 51…ancora un palazzo… ci sono. Il portiere mi squadra e sembra poco convinto quando gli chiedo a che piano abita Laura. Ho ancora addosso la tuta da lavoro.

“Sono l’idraulico, gli propino, devo riparare lo scaldabagno della signora…l’avverta che sto salendo”

La vestaglia, non è stretta in vita e si apre abbondantemente. Quello intuito in officina trova conferma e mi rendo conto di quanto sia provocante. È la prima volta che l’eccitazione manda via senza titubanze timidezza e mancanza di iniziativa. Mi sento, ma per poco, come uno sbarbatello che paga una prostituta priva di scrupoli per la giovanissima età del ‘cliente’. Eccitazione e ansia da prestazione svaniscono, azzerate dall’esperienza della mia disinibita celebrante il rito dell’accoppiamento.

“Ciao Laura, ci vediamo. Presto?”

“Quando vuoi e quante volte vuoi”

Questa notte, un secondo dopo che la lancetta delle ore si è sovrapposta al numero uno, gli occhi solo per un attimo cercano nel buio il ‘video’ dell’impeto che ci ha posseduto nel grande letto di Laura. Il sonno arriva dopo pochi secondi, appena dopo aver rivisitato indirizzo e numero telefonico biglietto che se ne sta al sicuro nella tasca della tuta blu da meccanico.

Lo diceva sempre Assunta: “Di vecchiaia non si muore” e tutti erano convinti che la ‘donna cannone’ di Bagaria intendesse alludere al salto in su dell’aspettativa di vita che ha modificato anagraficamente lo stato sociale degli italiani, stirpe sempre più longeva e un folto manipolo di centenari in gran parte arzilli e svegli di mente. L’umile massaia, mitica madre di diciotto figli e quattro volte cliente seriale della mammana che l’ha liberata di quattro embrioni, avrebbero potuto candidarsi al Guinness dei primati nel ruolo di procreatrice di una doppia squadra di calcio e con la sentenza “Di vecchiaia non si muore” intendeva altro. Agli intimi chiariva che dalle sue parti è raro associarsi alla categoria della terza età, impediti da esecuzioni a colpi di lupara.

Mitica eccezione a questo trend di mancati invecchiamenti, Tommaso Solimando è il prototipo del padre padrone di una terra dove non si muove foglia senza il consenso del ‘mammasantissima’ a cui si deve rispetto e totale subordinazione come al santo protettore locale. Il padrino ha superato o da quasi tre anni gli ’ottanta’ e senza perdere un briciolo di brutale autorevolezza, che gli vale la conferma del carisma acquisito nel doppio ruolo di referente politico dello storico partito di maggioranza e di indiscusso boss di un ampio territorio dominato da Cosa Nostra. Prima di lui ha governato le due funzioni suo padre, don Rosario, accreditato di una serie mai completamente quantificata di omicidi, culminata con l’esecuzione di un potenziale rivale. Il ‘fatto di sangue’ non ha messo fine alla faida dei due potenti clan del palermitano e anzi, ha l’ha alimentata, con morti dall’una e dall’altra parte. Politicamente s’è implementata la guerriglia per la candidatura a partner siciliani del potere centrale e Tommaso, a dispetto di qualche acciacco e di una forma seppure non grave di diabete, deve far la spola con Roma, dove incontra gli uomini ‘forti’ del partito dei moderati.

“Tommaso, hai lasciato in sospeso la questione ‘edilizia’. Allora?”

“Tranquillo, ah…tutto sotto controllo. L’appalto che sai è cosa nostra e Cosimo, è un amico fedele e sa come ricambiare. Parliamo di quasi dieci miliardi di lavori”.

“E con i D’Agata?”

“Niente di nuovo. I miei li tengono ‘buoni’. Facile non è, ma per ora controlliamo le loro teste calde, qualche volta con le ‘cattive’”.

“Tommaso, ci devi un favore, come posso dirti ‘speciale’. Sai che a Palermo c’è un uomo che ci ‘preoccupa’. Non ci piace come sta indagando sui rapporti di nostri politici con uomini fidati come te e non va niente bene. Devo dire altro?”

“Onorevole, consentimi di non rispondere. La famiglia è la famiglia. Di problemi quanti ne vuoi?”.

“Nemmeno uno, ne ha anch’io a sufficienza. Te? Problemi con tua moglie?”

“Benedetta donna. No, per carità, Maria è una santa donna. No, i problemi li devo a Santo. Intanto perché mi contesta l’amicizia con il partito e specialmente come governo la ‘famiglia’”.

“Ognuno ha la sua croce, ma per fortuna ho spalle forti”.

Rosalia, ha sposato Santo per ‘sistemarsi’ come tante giovani donne siciliane che vanno spose a uomini che disconoscono la pari dignità uomo-donna. È stata perfino invidiata nel suo quartiere: sposare un Solimando, agli occhi delle ragazze da marito e delle loro famiglie equivale a garantirsi il futuro. Prima delle nozze il passeggio domenicale dopo la messa, nella strada principale di Bagaria, è stato per molti mesi il rito sociale di Santo e della sua promessa sposa. Il test della prima notte di nozze racconta in fretta che il rapporto dei due giovani è nato sotto una cattiva stella. Santo è deciso a sverginare Rosalia con il ‘garbo’ dello stupratore brutalmente eccitato come farebbe con una puttana che rifiuta certe ‘prestazioni’. La moglie, già poco disposta a ‘immolarsi’ al marito padrone lo respinge piangendo e si rifugia nel bagno di dove viene via convinta a non consumare il matrimonio, ma ha la peggio e deve subire l’aggressione sessuale del marito. La violenza è destinata a segnare per sempre uno di tanti casi di incompatibilità. Rosalia incontra per caso Armando, un coetaneo che si è laureato in medicina a Milano ed è tornato a Bagaria per esercitare.

“Avvocato, allora, fine dell’emigrazione?”

“Come vedi, ma forse no. Devo ancora decidere se restare o tornare al Nord dove c’è spazio e gloria anche per la mia professione. E poi, chissà, h una mezza idea di entrare in magistratura”.

“E allora meglio al Nord. Da queste parti per i magistrati non è aria”

“E tu? Non hai la faccia della soddisfazione, o mi sbaglio?”

“Lascia perdere. Dove alloggi, dopo la morte dei tuoi genitori, la vostra casa è stata venduta”

“Non mi impietosisci, anche perché una soluzione ci sarebbe. Abbiamo appena comprato una casa nel nuovo complesso costruito nelle vicinanze del mare. Niente di eccezionale, ma credo che per te andrebbe bene. Domani, se vuoi, te le faccio vedere”.

Non servono spiegazioni, l’intesa di don Tommaso con Michelangelo è di antica data. Sai che fare e come: “Virginio Diotallevi, corso Garibaldi, numero 87, ingresso indipendente. Mi chiami a cose fatte”.

Radio Sicilia Mx38: “La mafia ha colpito ancora. Questa mattina, pochi minuti prima delle otto, un uomo con il casco integrale ha ucciso a colpi di pistola il giudice Diotallevi, 43 anni, che indaga sugli appalti truffe nell’area est di Palermo e il brigadiere Romolo Stopponi, poliziotto di scorta del magistrato. Ferito gravemente l’agente Molinari. Questo un primo flash di agenzia…”

“Armando hai saputo? Come benvenuto niente male. Quello che avevi lasciato, quello ritrovi. Vuoi sempre fermarti a Bagaria?”

“Con assoluta convinzione. Se scappiamo facciamo un grande favore alla mafia. Tu che ne pensi?”

“Che la mia vita deve cambiare e completamente. Non ho divorziato, ma è come l’avessi fatto. Con mio marito ci diciamo a stento buongiorno, sospetto che il padre abbia a che fare con Cosa Nostra e lo vedo spesso in compagnia di noti mafiosi, non solo di Bagaria. E poi, nessuno sa spiegare il perché di un ita nel lusso se non ha un’attività redditizia. Nei giorni scorsi, non vista, l’ho sentito impartire parlare quasi in gergo a un suo uomo. Mi è sembrato che gli ordinasse qualcosa di grave”.

“So che non dovrei chiedertelo, ma senza rischiare nulla, prova a capire di che si tratta”.

Vibrazione e suoneria ‘Lungomare’. Sul display del cellulare don Tommaso legge il nome Michelangelo e risponde.

“Si? fatto? Sparire devi ora, tra poco ci sarà un casino di poliziotti e carabinieri”

“È così, Armando. L’ordine di ammazzare Diotallevi lo ha dato mio suocero. Ho sentito che ne ha parlato al telefono con chi lo ha ucciso”.

“Il problema è come dimostrarlo. Di sicuro c’è che tu non puoi denunciare don Tommaso. Sarebbe la tua condanna a morte, ma forse qualcosa possiamo fare. Manderò alla Procura una lettera anonima con per suggerire di sequestrare il cellulare di tuo suocero e di decriptare le conversazioni di questi giorni”.

All’alba di tre giorni dopo l’omicidio del magistrato, il comandante della stazione di Bagaria dei carabinieri e due suoi uomini bussano alla porta d’ingresso di casa Solimando. Ne escono con il boss in manette e in escandescenze.

È l3 Aprile, la giornata sembra anticipare temperature estive e le dalle finestre della casa che Armando De Ceglie ha preso in fitto dai Solimando il mare è imbiancato da forti folate di scirocco. Sul letto a due piazze Rosalia, che come speso accade da qualche tempo ha detto al marito che avrebbe trascorso la notte da Clara, l’amica di sempre, prova a recuperare almeno in parte le ore della notte insonne.

“Driiiiiin” e neppure il tempo di capire cosa sta per succedere. Santo fredda l’amante della moglie con due colpi di pistola all’altezza del cuore. Rosalia, terrorizzata si chiude a chiave nel bagno. Non ha fretta il marito. Aspetta in silenzio per ore, fino a quando la moglie, sperando che sia uscito di casa, esce dal bagno. Con due proiettili in pieno petto si abbatte sul letto disfatto e muore in pochi minuti. Don Tommaso, informato da un ‘picciotto, aveva ha rivelato al figlio il tradimento della moglie.

Altra materia per un servizio di Radio Sicilia Mx38

L’isolamento-quarantena da coronavirus si sopporta anche con la lettura. La nota di oggi 2 Aprile coincide con il ‘Racconto della domenica’ (del prossimo 5 Aprile) che pubblico su ‘La voce delle Voci’, erede on line della storica Voce della Campania’

Il sole è uguale a se stesso, da sempre, eppure diversissimo se attraversa l’atmosfera che lo accoglie. Muta in spessore, trasparenza, nebulosità, se offesa da smog, se sovrasta nord o sud, ovest o est della sfera che abitiamo per sua benevolenza. Ma quanta influenza generano i raggi se cadono da zenit o da nadir, se ‘piovono’ all’equatore o sulle calotte artiche, su boschi o steppe, deserti, isole, monti e pianori, tetti di paglia e coperture in cemento, se investono di energia erba, piante, alberi, o uccidono bruciando zolle di terre brulle per millenni di siccità: quanta?. Il sole compete con i veleni del nostro respiro. Catturato da speciali pannelli, restituisce carburante ‘pulito’ per alimentare la tecnologia del presente e del futuro. Chi può permetterselo insegue le stagioni del sole nei cinque continenti. Emigra l’astro dove riscalda un frammento del pianeta e mette in stand by, a turno, i luoghi stagionali del freddo.

Il sole mi sta addosso come un plaid di cachemire. Alle dieci di questo mattino d’Aprile mi parla di primavera, di opportunità bio-sanificanti. Vero e quanto vero, che sia antagonista planetario della pandemia coronovirale? Sì, no, ni, forse. Comunque, male non fa, e pazienza se per sentirlo sulla pelle rischio il rituale, fastidioso incontro con l’agente allergeno, infestante, della parietaria, che va aggredendo il mio campionario di rose, gerani, spine di Cristo, bouganville. Dall’impianto stereo ‘Iesce sole’ e oltreapassa il vano della finestra spalancata. A volume massimo il canto si fonde con le note di ‘Volare’, ‘Bella ciao’, ‘Il cielo è sempre più blu’, l’inno di Mameli, che all’ora ics invadono strade e piazze tinte di tricolore. ‘Iesce sole, nun te fa’ cchiù suspirà’: Napoli si connette così al pensiero positivo dell’Italia offesa dall’epidemia, con la prima canzone scritta nella lingua di Eduardo, Viviani, Scarpetta, filastrocca datata 1200, testo attribuito a Federico II.

Grazie sole: di questo due Aprile fai un giorno normale, un Paese normale, silente come ovattato, intimista, abitato da parole inconsuete: altruismo, solidarietà, pietas, eroismo, tenacia, perfino ottimismo.

Milos, fratello più che amico, regista televisivo croato, compagno prezioso di un mini docufilm che ho girato sul conflitto fratricida serbo-dalmata, da inviato nella terra belligerante del post Tito. Senza la sua guida cosa avrei filmato? “Milos, ti chiamo da Napoli, come puoi intuire per sapere che stai bene, se il virus finora ha risparmiato Spalato, la tua fantastica città”. È tutto ok per Milos.

“Bruno, finito il lavoro di editing del tuo ultimo libro? Sì? Bene, Spero di leggerlo presto”

“Claudio ho letto ‘Fascismo, antifascismo e continuità dello Stato’, storia del generale Mario Roatta, di Davide Conti, saggio edito dall’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti. Mi piacerebbe se diventasse un testo adottato dalle scuole”

“Marta, pazienza. La quarantena finirà. Ascolta i cd che ti ho donato prima del Covid-19 e specialmente ‘The Koln Konzert di Keith Jarret. Esplora il canale Ski Arte, mantieni la forma con gli esercizi del metodo ‘Pilates’”

Colleziono risposte al “Come va?” di Diego, Mauro, Roberto, Liliana, Tonino, Maria Pia, Patricia da New York. “Io? Sì, anch’io bene”

Bene? Ma sì. Scrivo, disegno, dormo quanto basta, tiro via dagli scaffali bellissimi libri d’arte, di eccelsi pittori d’ogni epoca e cataloghi di artisti napoletani, la monumentale Storia Fotografica di Napoli edita da Intra Moenia, i corsivi di Fortebraccio pubblicati da l’Unità, raccolti in una serie di ‘tascabili’. Ascolto la musica popolare e impegnata degli ‘Zezi’, impegno i venti minuti dopo il primo caffè di giornata per i miei imprescindibili esercizi di ginnastica, dò un’occhiata a la Repubblica, ma oltre le pagine del tormentone ‘coronavirus’, quindi agli interni,al comparto ‘Arte’, al corsivo quotidiano di Michele Serra, alla cronaca di Napoli.

Il vento. Oggi è brezza sostenuta, propaggine dell’impeto freddo che ha scavalcato la diga delle Alpi e viene giù a contrastare l’ottimismo per il caldo in fieri che potrebbe infastidire la pandemia e chissà, spegnerla. L’aria muove le foglie lanciformi dell’ulivo che cresce rigoglioso nel mega vaso di terracotta in un angolo dell’ampio terrazzino curato dal mio pollice verde. Poche foglie, ingiallite dall’inverno, volano, la vite americana si sveglia dal sonno della stagione ‘morta’ e chiede nutrimento per i primi segni di rinascita. L’alimento con la polvere di caffè delle cialde sfruttate, che nonna Angela Ha usato come fertilizzante. Una piccola colonia di gabbiani, emigrata fin quassù a caccia di prede, insidia colombi e merli e spaventa con il verso gutturale del suo linguaggio aggressivo.

È tempo di mandar via il mix di ansia, timori a tratti di angoscia indotto dalla tragica lotteria di contagi, deceduti e guariti dal Covid-19, che satura l’arcipelago mediatico di news, vere, false, in antitesi o concordanti sullo status del virus. Ma come?

Provo a selezionare, dall’intrigo di gangli che affollano l’emisfero destro, il nucleo che ha collezionato alla rinfusa milioni di flash, frammenti di vita fin dove riesce a risalire la memoria. Uno dopo l’altro, tassello dopo tassello, opero l’oscuramento di quanto percepito dal momento del primo allarme coronavirus e li sostituisco con i mille ricordi rasserenanti che vivono dormienti nelle profondità della coscienza: affetti, attimi di serenità, allegria, benessere, amore, spensieratezza, gioco, viaggi, vacanze, successi, emozioni.

Quella volta della ‘corriera’, che impiegò circa cinque ore per raggiungere la costa del Cilento, appena prima della proiezione nel mare Tirreno di Palinuro, leggendario nocchiero: chilometri di spiaggia ‘vergine’, incontaminata, tutta per noi, a piedi nudi per l’intera estate, il costume di tela grezza confezionato da Marcella, splendida donna e dolcissima madre. Poi sempre lì le vacanze, dalla fine dell’anno scolastico alla ripresa del lezioni in Settembre e il rapporto confidenziale con don Pietro, parroco trentino finito chissà come e perché dalle nostre parti. La sua cabina balneare l’aveva collocata in un tratto remoto di spiaggia, per ragioni di giustificato riserbo. Di buon mattino scavammo un fosso profondo all’ingresso della cabina, coperto con giornali e sui giornali con l sabbia, per nasconderlo. Risuonò a squarciagola l’urlo del prete, finito nel piccola voragine e anche un “cazzo”, imprecazione per nulla ‘pastorale’ che abbiamo minacciato di divulgare alle pie del paese, ma solo per vederlo sbiancare in volto.

Compiti i vent’anni tutt’altro: spiaggia affollata, nuovi alberghi, nuovo prete e l’arrivo senza chiederci perché di fanciulle della svizzera italiana. Una delle due era scultrice, bellissima o forse solo bella, ma per me   bellissima perché bionda e disinibita. Estate da ricordare per tutta la vita con lei. Notti magiche, euforia, sesso, l’addio-arrivederci di fine estate, un paio di lettere, una ‘impegnativa’, la sua: “Vengo a Napoli e ci sposiamo”. Fine di una storia da settimanale di gossip, conclusa con il mio spaventato stop a lettere e piacevoli ricordi. Ora, è distrazione strategica, per scalzare titolo e capitoli ossessivi del coronavirus come altre storie: gli ‘eravamo quattro amici al bar’, ovvero le allegre ragazzate di quelli della funicolare di Chiaia, raduno goliardico di giovani vomeresi o il 21 a 3 calcistico inflitto da noi studenti di Architettura ai ‘nemici’ di ‘Lettere’, la vittoria con il Gian Battista Vico nella finale del torneo studentesco di basket, contro ‘quelli della Nunziatella’. Il mio amore per la vita, due figlie infinitamente belle, il giornalismo, anche in giro per il mondo.

Dal televisore la riconoscibile voce di uno dei conduttori di TG Rai: “…Bollettino giornaliero. Contagiati…, guariti, deceduti…”. Clic su ‘off’ e video in nero. È l’ora del disegno di una nuova ‘sardina’ parlante, da postare su Facebook.

Saga di una famiglia napoletana – ULTIMA PUNTATA

Cugini-amici, giochi e cose serie, ricordi struggenti, riflessioni sulla filosofia della vita, i luoghi di un quartiere napoletano, luogo del silenzio e della serenità, sentimenti forti, emozioni, rimpianti  

Zio Pasquale, Pezzy rinominato da nonna Angela, è stato un mitico medico chirurgo. Spesso lo accompagnavo nelle sue visite. Era sempre sorridente, aveva un rapporto rassicurante con i pazienti da cui riceveva manifestazioni di affetto, di simpatia e rispetto, ma il tributo più sorprendente l’ebbe quando lo accompagnai nella corsia del reparto di tisiologia dell’ospedale Principe di Piemonte, che dirigeva, perché Monaldi, il primario, aveva totale fiducia nella sua capacità diagnostica e terapeutica, (ho potuto verificare personalmente che non ha sbagliato un solo verdetto). Entrando insieme nella corsia con i letti posti uno a fianco all’altro vidi tutti i pazienti salutarlo con calore. Ebbe sorrisi per tutti, dispensò visite accurate e tenne un dialogo scherzoso, affettuoso, rasserenante. Il rapporto professionale con Monaldi s’interruppe in qualche modo per mia colpa, come conseguenza di un diverso giudizio su un intervento terapeutico.

Mi ammalai di una grave forma di pleurite: avevo sette anni, una forte inappetenza e decimi di febbre persistenti. Mia madre mi accompagnò allo studio di zio del Vomero, dove mi sottopose a una radiografia. Si accorse che c’era qualcosa di serio e l’accertamento fece piangere mia madre. L’avevo capito anch’io, ma sapendo che se ne sarebbe occupato mio zio sentivo di essere al sicuro. Seppi molti anni dopo che lui e Monaldi, luminare del settore, teorico dell’efficacia del pneumotorace, erano in disaccordo sulla terapia da adottare. Zio Pezzy optò per la terapia a base di streptomicina per via iniettiva, praticata da nonna Angela tre volte al giorno. Mio zio, dopo il divorzio con Monaldi si specializzò in cardiochirurgia a Torino, alla scuola del famoso Actis Dato.

Ricordo con emozione uno dei suoi mille esempi di straordinaria disponibilità. A poco più di tre mesi dalla tragica morte del figlio, entrò in sala parto e aiutò Libera, la mia compagna a dare alla luce nostro figlio con un intervento davvero difficile, perché il bambino aveva il cordone ombelicale avvolto intorno al collo e anche Libera era in grande sofferenza. Fu necessario il taglio cesareo, intervento non usuale per mio zio, che comunque lo affrontò per salvare le due vite. L’intervento riuscì. Senza tentennare, conscio delle responsabilità che assumeva e in adesione al giuramento che da senso etico a questa professione, decise di intervenire, convinto dall’urgenza richiesta dalla situazione. Di là da ogni considerazione sulla sua incredibile determinazione e la calcolata lucidità nervosa, fisica, considero oggi il livello di rischio affrontato con coraggio.

Mi manca il suo sorriso. Lui e mio padre avevano sposato due sorelle. Marcella, mia zia era molto bella e interessata alla vita culturale e mondana della città. Allieva di Striccoli, post macchiaiolo, divenne una pittrice. Ero affascinato dai tubetti di colore, al punto che un giorno ne feci uscire la morbida pasta. Scoperta l’ ‘impresa’, zia Marcella, donna di grande intelligenza, intuì che ero affascinato da quel mondo e che mi avrebbe coinvolto. E così, mi fece assistere al suo lavoro di pittura che aveva come soggetto dominante il dolore atroce per la morte del figlio. Dopo un’ ‘ubriacatura mistica’, che dette origine alla produzione di opere di genere, retoriche, ispirata dalla processione di Monte di Procida, realizzò quadri di intenso espressionismo.

Il dolore per la perdita di mio cugino mi ha sconvolto. La morte è un’ amara, dolorosa estraneità, non se tocca persone a te vicine, come le giovani Roberta e Vitaliana con le quali ho diviso sentimenti e affetti, sensualità, percorsi intellettuali, esperienze culturali. Sono morte tra dolori strazianti. Se provo a immedesimarmi nel loro vissuto ho la sensazione di cadere in un orrido senza fine da cui provo a uscire per non impazzire.

Ho perso mia nonna Angela, mio padre, mia madre, amici, amiche, compagni, Renato, un mio cugino di Roma: altrettanti dolori che si sono sommati e hanno portato via parti di me, ma lo strazio per la morte di Ugo è tale che non riesco ad esprimere fino in fondo quanto ho provato. Era un riferimento per tutta la famiglia. Taciturno, ma sempre ironico, intelligente, si era laureato in Architettura con centodieci e lode e la pubblicazione della tesi. Era il mio migliore amico e non è mai svanito il dolore di aver visto il suo corpo inanimato. Era malato da qualche tempo di una grave forma di leucemia. Avrei voluto che si alzasse da quel maledetto letto di morte, nell’illusione disperata di poter parlare con lui prima che portassero via il corpo senza vita.

Un gioco di ragazzi che occupava gran parte del tempo libero era la raccolta delle figurine ‘Panini’, immagini dei calciatori di diverso valore. Per ottenere una dei portieri ce ne volevano dieci di altri giocatori, venti per gli introvabili. Dopo le contrattazioni veniva il momento della scommessa su quante riuscivamo a capovolgerne con un con colpo secco della mano a cucchiaio in terra, accanto al mucchietto delle figurine. Si vincevano quelle girate con lo spostamento d’aria.

Come dimenticare i venditori ambulanti di fichi d’india? Li potevi comprare per poche lire e il venditore li sbucciava, con le mani martoriate dalle spine. La variante: pagando l’equivalente del costo di due fichi d’india, con un coltellino del venditore non ben bilanciato, si tentava la fortuna. Se il coltello penetrava nel frutto e si riusciva a sollevarlo era tuo. Ai più bravi e fortunati era allora concesso di continuare a provarci fino al primo errore.

Quasi tutti i giorni giocavamo nell’ampio cortile dei Salesiani, ma alla domenica era concesso solo se si ascoltava la messa e ci si univa ai canti religiosi, come piaceva me. Nella parte più vasta del cortile si giocava a pallone e di lato in due piccoli campi di basket. Noi cugini preferivamo la pallacanestro, spinti dai successi dei nostri zii, giocatori della nazionale. Ogni domenica si esibivano nel campo di calcio i giocatori più grandi di noi divisi in squadre come Inter Napoli e Milan boys, impegnate in un vero campionato.

Al Vomero si svolgeva la tradizionale gara a cronometro dei ‘carruocioli’, nell’ambito della competizione promossa dal quotidiano ‘Il Mattino’ che organizzava la Capri-Napoli di nuoto per il titolo mondiale di categoria. Sergio e Renato, i cugini più grandi, partecipavano alla competizione dei ‘carruocioli’, con tavole di legno su cui si fisavano assi trasversali mobili, per cambiare direzione, in cui erano infilate le quattro ruote, i cuscinetti a sfera. Uno dei concorrenti guidava, l’altro spingeva lungo il percorso in discesa nelle strade del quartiere.

Il Castello di San Martino, ovvero Castel Sant’ Elmo, dal 1329, data di inizio della costruzione, fino al settecento, ha subito varie trasformazioni. La più significativa intorno al 1500 con la realizzazione della pianta a stella. La spettacolare vista dal castello, dal punto più alto del Vomero, abbraccia la città di Napoli a 360 gradi, le aree limitrofe, include il golfo, la penisola Sorrentina, Capri. Si raggiunge percorrendo vico Annibale Caccavello o la via Morghen, fin giù alla discesa che immette nel belvedere e da cui si accede alla Certosa. È da sempre un luogo incantevole. Nel dopoguerra è stato un presidio militare, occupato soprattutto da soldati americani. In gran parte ospitava le famiglie degli ufficiali, in abitazioni bellissime.

Avevo intrapreso studi artistici in cui eccellevo e avevo la fortuna di conoscere pittori e scultori napoletani, di altri affermati a livello nazionale. Ugo era un mio estimatore e mi incitava a proseguire gli studi intrapresi. Lui concluse gli studi classici con la laurea conseguita quando era in ospedale, in una camera dell’Ospedale Cardarelli dov’era ricoverato per la sua grave malattia. Morì poco dopo.

Guardandoti al passato, sai di aver alternato gioia e soddisfazioni a sconcerto, sgomento, disperazione. Ho capito che dà senso alla vita la dignità, la lotta per affermarne i giusti valori, il riscattarsi dalla subalternità ai poteri forti. Mi definisco materialista storico, avverto il danno culturale, sociale, economico di culture che drogano le masse a vantaggio di chi governa il mondo. Cerco una risposta alla domanda senza esito rivolta ad antropologi, neurologi, filosofi.

[Che cosa interviene alle materie viventi da determinare attraverso la percezione, che è di tutti, quella particolare e individuale che ne stabilisce il sé. Di quella percezione che ti fa prendere possesso di te con la consapevolezza di essere un unicum nel tempo e nello spazio di essere io e non l’altro, di essere adesso e non prima o dopo, che fenomeno è dunque quella percezione che ti accompagna dalla nascita, quella, esattamente quella e non un’altra, fino alla morte e poi basta, perché dunque coincidere solo con quella materia, che ti fa percepire le gioie, i dolori ecc. in un arco di tempo determinato, in quel momento della storia dell’umanità e no con un’ altra. Possibile che io abbia avuto la percezione di me solo dal giorno della mia nascita, o da poco prima e fino a quando morirò, non prima né nel futuro? Perché non sono stato ominide, soldato romano, costruttore delle piramidi, mendicante, con la pelle nera, torturato perché eretico, donna, cortigiano del re Sole, maya, allievo del Brunelleschi, combattente in sud America con le truppe spagnole, rivoluzionario russo, ebreo chiuso nei lager nazisti, Picasso, madonnaro da marciapiedi, astronauta in viaggio nello spazio?]

Insomma perché questa straordinaria particolarità si concretizza legandosi a una sola materia, una sola volta, in uno spazio e in un tempo determinato?

Per me è chiaro: l’anima non mi interessa in una visione sacra e trascendente, anche se riconosco che la tesi fa parte dell’immaginifico, di rituali sciamanici che hanno caratterizzato larga parte della storia dell’umanità. (Fine)

Saga di una famiglia napoletana (terza puntata)

 C’è chi cancella la maggior parte dei primi anni di vita dalla memoria, per limiti del suo funzionamnerto ‘a breve’. Altri dimenticano quanto è accaduto loro cinque minuti prima, ma ricordano in dettaglio eventi, storie, persone, dei primi anni di vita e del suo percorso negli anni a venire.

La vergogna è un sentimento cresciuto dentro di me, anche, soprattutto per “colpe” altrui. Mi vergognavo delle povertà, dei bambini abbandonati al loro destino senza futuro, degli anziani vittime di malattie, dei poveri a disagio nel chiedere l’elemosina. Crescevo e aumentavano le occasioni di consapevolezza, lo sgomento. A Napoli e non solo, nel dopo guerra era frequente la precarietà abitativa degli immigrati in baracche messe su con cartone e vecchie lamiere arrugginite, il loro sfruttamento, la fatica in condizioni disumane. Nel mondo, in alcuni Paesi piccolissimi lavoratori erano costretti a lavorare nei cunicoli bui delle miniere nel centro e sud America, le bambine erano spinte a prostituirsi, subivano violenze le donne, era terrificante la strage di bambini uccisi da malattie e denutrizione: un morto ogni pochi secondi. Tutto questo come conseguenza di enormi arricchimenti sulla pelle dei poveri.

Avevo meno di cinque anni, era il ventiquattro dicembre di non so bene quale anno, ero molto curioso di sapere chi fosse ‘babbo natale’, il vecchio con la barba che portava regali e giochi. Così sono rimasto sveglio per gran parte della notte. Al buio, rotto solo dalle piccole luci dell’enorme albero di Natale lasciate accese per accogliere Babbo Natale, mi alzai dal letto e, deluso, non lo vidi. Neanche i regali. A piedi nudi toccai una delle lucine e presi la scossa. Impaurito e dolorante tornai a letto consapevole di aver rischiato il peggio.

L’acqua. L’acqua del Vomero era del fiume Serino, fredda, trasparente, eccezionalmente buona. Oggi dilaga l’abitudine di bere acque minerali in bottiglie di plastica, spesso lasciate al sole, con il pericolo di diventare terreno di coltura di batteri e di cui per lo più non conosciano le sorgenti, la qualità. L’acqua del Serino la bevevamo direttamente dal rubinetto, con avidità. In estate, un gioco consisteva nel riempire di acqua gelida l’ampio lavandino del bagno e dopo aver inspirato aria, nel tuffarci dentro la testa per provare refrigerio dal caldo.

Era il tempo delle vacanze a Capomiseno, al limitare dei Campi Flegrei, dove la lunga spiaggia di sabbia bianca, finissima, si collega, a semicerchio con Miliscola e Monte di Procida. Conficcata nell’arenile era stata abbandonata una jeeep americana, altro motivo di gioco. Lo svago più frequente era l’arrampicata su un albero di gelso, per cogliere le more e tingerci il viso, il corpo, con il loro umore rosso o correre tra il canneto prima di gettarci in mare, dove rimanevamo per ore. I nostri svaghi si interrompevano allo sventolare di un asciugamano colorato che come una bandiera avvertiva che era pronto il pranzo. Subito dopo aver finito il piatto di maccheroni tornavamo a giocare con il permessso di zio Pezzy, medico.

In primavera, quando il marmo della lunga balconata si riscaldava con il sole, mettevamo in una una ciotola con un po’ d’acqua e vi scioglievamo dentro il sapone molle, venduto a peso. Con ‘mezzanelli’ usati come cannucce, facevano grandi e belle bolle.

Mi addolorava vedere uscire dai ‘bassi’” ricavati dalle fondamenta del nostro palazzetto ragazzi e ragazze poveri, che ci osservavano con occhi tristi ed espressioni di giustificata invidia, ma sempre di dignitosa compostezza.

Nella piazzetta quadrangolare di fronte al nostro edificio, in asse con la funicolare, si aprivano molti negozi: la salumeria, una bottega di dolciumi, il negozio del macellaio e di fronte tabaccheria, bar, fruttivendolo, barbiere; all’angolo c’era il chiosco del giornalaio. In occasione del mio compleanno, l’otto maggio, nonna Angela, con un tono che non ammetteva repliche, mi disse “Seguimi, ti faccio un regalo”. Mi aspettavo di ricevere una pistola, un pallone, ma dove mi aveva condottto non c’erano negozi del genere. Ero disorientato e incuriosito. Ho scoperto così il più sconcertante regalo che abbia mai ricevuto, indimenticabile: arrivati dal salumiere mi disse: “Ricorda, la pasta deve essere di grano duro, se no alla cottura diventa molle, per i dolci ci vuole la farina doppio zero, la più raffinata e la pasta non si deve conservare a lungo perché l’aggrediscono i ‘pappici’. Accanto al piccolo negozio di dolciumi: “Se compri caramelle o cioccolato scegline di buona marca, privi di colori artificiali. La nonna era salutata docunque con affetto e deferenza. Entrammo nella macelleria: “La carne non deve avere un colore rosso scuro, non deve essere striata, ma presentare una struttura arrotondata come quella del filetto, morbida, di colore rosa. Da preferire sono le salsicce preparate a punta di coltello, non quelle di carne macinata. Cominciavo a capire in cosa consistesse il regalo. Era una dettagliata informazione su cosa da comprare e cosa evitare e meritò la mia attenzione. Nella bottega del tabaccaio mi ammonì: “Le sigarette fanno male, come lo zucchero, che va assunto in piccole dosi. Così il sale. In prossimità del bar: “Questo locale fa buoni gelati, usa prodotti genuini, ma non abusarne”. Nelle vicinanze del fruttivendolo la zona era profumata: “La frutta deve essere di colore vivo e per manghiarla appena comprata deve essre maturra al punto giusto. Le patate non devono avere infiorescenze, i pomodorini vanno bene soprattutto per il sugo ‘alla pizzaiola’, o per una veloce salsetta. L’anguria deve emettere un suono chiaro al tocco con le nocche delle dita, che devono rimbalzare. La verdura deve essere fresca”. Tornai a casa ricco di sagge informazioni sulla scelta degli alimenti da suggerire alla bravura di mio padre in cucina, di un bagaglio di insegnamenti da tesaurizzare. Ancora oggi ne faccio tesoroccio con gli amici che ospito.

La piazzetta di fronte al nostro palazzetto era spesso teatro di partite di calcio. Il ‘pallone’ era un tappo di birra riempito di asfalto, trovato chi sa dove, usato per renderlo più pesante e controllare meglio i tocchi. Le porte erano le due “saittelle”, cioè larghi fori rettangolari posti uno di fronte all’altro del marciapiedi, che servono a convogliare le acque piovane nelle fognature. Passare il tappetto con l’obiettivo di fare gol era impresa da giocolieri, ostacolata dal transito dei passeggeri in uscita dalla funicolare. Al tiro di rigore, il portiere doveva mettere il piede sul marciapiede in corrispondenza della ‘saittella’ e provare velocemente a fermare il tappo  lo scagliava l’avversario.

Spesso. nell’angolo a sinistra della piazzetta, i burattinai collocavano il ‘teatrino’ in legno alto quanto una persona e muovevano le marionette nel piccolo palcoscenico, accompagnando le scene con il parlato fuori campo dei dialoghi. Protagonista principale era Pulcinella, in conflitto con il padrone di casa o l’avversario in amore e perfino con il diavolo. Dopo aver subito botte sonore, Pulcinella aveva la meglio e ne restituiva in abbondanza, per la nostra soddisfazione.

Gli occhi di mio padre, belli, dolcissimi, quando divenne anziano denunciavano la silenziosa e dolente richiesta di essere risparmiato dai mali dell’invecchiamento e della morte. Nel corso della vita, ha dispensato amorevolezza e gioia di vivere. Dell’amore per la vita è stato interprete starordinario, creativo. Ho pensato che quasi non gli appartenesse il dovere di morire. Raccontano di lui che durante i bombardamenti si adoperasse per infondere ottimisno in amici e parenti, mentre cuoceva gli spaghetti recuperati chi sa come. Teorizzava che fossero cotti al dente e così distoglieva i presenti dalla paura.

Gli occhi gli si riempivano di lacrime al ricordo dell’amatissima figlia Marilena, morta quand’era molto piccola, vittima del colera. Mi accoglieva nella sua ampia giacca e il calore, l’affetto mi erano di grande conforto. Generoso e a detta di mia madre buono, dolce, era dotato di una visione della vita diametralmente opposta. Amava la cultura, specialmente la letteratura dei classici e quando mi illustrava la poetica di Dante me la faceva amare. Ribelle a qualunque forma di costrizione, era straordinario autore di intuizioni imprenditoriali, ma gli facecva difetto la dote della continuità. L’alternarsi di fortune economiche e cadute rovinose era causa d’insicurezza per mia madre, che era disposta ogni volta a perdonarlo, perché gli riconosceva i disagi di essere stato in collegio dall’età di sei anni, di non aver avuto l’amore della madre, morta quando lui era ancora in collegio, di essere figlio di un padre che ha dilapidato anche la quota patrimoniale dei figli. Tutto questo agli occhi di mia madre lo giustificava, almeno in parte. Per lei era un estroso ‘folle’ a cui era legata da forte passione. Oggi, che sono anziano, mi piace ricordare i miei genitori giovani, belli nei momenti di felicità.

Il mio primo innamoramento fu per un’amica di poco più grande di mio fratello Mauro. Aveva circa quindici anni, una fronte spaziosa, l’ovale perfetto, un sorriso luminoso e due occhi chiari di straordinaria bellezza, come truccati, sopraciglia e ciglia scure. Mentre ci abbracciavamo con lei e mio fratello, mi sussurrò “Dammi un bacio” e gli lo diedi, emozionatissimo, sulla fronte. (3.Continua)

Saga di una famiglia napoletana (seconda puntata)

Intorno agli otto anni qualcosa che ho difficoltà a descrivere, mi impediva di avere consapevolezza piena di me stesso nei confronti di straordinarie meraviglie, mi era di sconcerto.

In una giornata dell’autunno inoltrato, di una pioggia lieve e fitta osservavo dal di qua della finestra, uno dei luoghi d’indagine dell’immaginazione. Di là dalla finestra volti di persone sconosciute, espressioni dolenti, da rassegnazione allo stato di esistenze inappagate, mi hanno sollecitato a raccontarle, a provarci mettendo insieme segni e parole. Di quanto ho scritto ricordo un breve passo: “Vedo…rassegnati e piangenti… dietro finestre di piombo…

Era verosimile a quell’età cogliere quel profondo sgomento esistenziale, era normale scriverne? Questa mia condizione di ragazzino riflessivo anzitempo era anche l’esito dell’ impostazione di vita ricevuta da mia madre, indotta dalla lettura delle pagine del vangelo, ma condizionate anche da forte e severa critica nei confronti della gerarchia ecclesiastica, tanto da domandarsi come fosse possibile per chi era impegnato nella diffusione dell’assistenza alle “anime” e ai corpi dei più bisognosi la distanza dalla conoscenza e dalla vicinanza a chi soffre. Spesso in sua compagnia l’ho sentita polemizzare con chi si rifugiava in luoghi di clausura. Che rapporto aveva con il mondo reale, con la sofferenza quotidiana di quanti stentano a sopravvivere e hanno alle spalle percorsi di onestà? Era quello il mondo giusto di interpretare il verbo di Cristo? Era da censurare chi faceva dell’abito talare uno strumento di potere per soggiogare il prossimo?

Due episodi mi fecero stimare e amare mia madre in questa ricerca travagliata d’impegno e di distinzione tra “bene” e “male”, tra gli ultimi e i potenti.

Mio fratello Mauro frequentava l’ultimo anno delle scuole medie dell’Istituto Salesiano al Vomero, noi eravamo in un periodo di ristrettezze economiche e per questo mia madre non aveva ancora pagato l’ultima rata scolastica. Pubblicati i risultati degli scrutini si recò insieme a me e a Mauro a leggerli. Il diploma sarebbe servito per iscriverlo, così era stato deciso, al Sannazaro, liceo che aveva un diffuso buon credito per la qualità dei docenti e l’impostazione avanzata dei “programmi” di  scuola finalmente pubblica. Mia madre cercò il nome del figlio, come facevano altri genitori, ma con sua grande sorpresa, individuata la classe e il nostro nome, si accorse che il risultato era coperto da una pecetta che ne impediva la lettura. Era così anche per altre famiglie indigenti che probabilmente non erano in regola con i pagamenti. A quel punto, ripresasi dallo shock, con un moto di decisa ribellione nei confronti di tanta meschineria, alzò la voce e denunciò la loro insensibilità, la pochezza d’animo. Mise soldi dovuti nelle mani del “Prefetto”, che intanto era intervenuto per il frastuono, e disse, ormai suscitando consenso, anche di chi non era in situazione di profondo disagio : … “Hann venì e comunist, song’ ie a primma che   veng’ a v’appiccià…”

Era rarissimo che mia madre usasse il dialetto o che si esprimesse sopra le righe, anche se nel discutere a volte era tagliente, ma mai esagerata. Fatto sta, che aveva toccato con mano uno degli aspetti peggiori del mondo ecclesiastico, la sua meschina pochezza.. Quello scatto di dignità mi propose l’immagine indelebile delle dolorose ingiustizie dovute alla diversità di classe sociale, la consapevolezza con cui maturai e che da adulto condizionò la mia scelta di campo.

Un altro significativo episodio: ogni mattina, soprattutto d’inverno, mia madre mandava Lina, la ragazza che aiutava in casa, e me, a portare una tazza di latte caldo alla bambina che in braccio a una donna chiedeva l’elemosina, accanto alle scale che da San Martino portano in discesa alla via Scarlatti. Mia madre era sempre pronta a soccorrere chi era in difficoltà e all’elemosina preferiva questo modo per aiutare chi era in difficoltà. La  sua scelta, insieme a comportamenti analoghi, contribuirono alla mia formazione.

Mia madre suonava il pianoforte e io, sdraiato sul tappeto l’ascoltavo, rapito da quel lieve correre sulla tastiera delle dita delle sue bellissime mani. Al conservatorio musicale di Napoli aveva conseguito il diploma a pieni voti, firmato dal direttore dell’epoca Francesco Cilea e per ottenerlo aveva dovuto superare con ferma determinazione i dinieghi familiari, le diffidenze, che a quel tempo impedivano a una ragazza giovane di realizzare i propri sogni.

Era impegnata nella difesa di ogni dignità, soprattutto di quella femminile e per anni condusse un nido per bambini di madri nubili, che difese da soprusi e violenze maschili, a rischio della sua persona. Mia madre ha anticipato le istanze femministe, è stata una bella persona e la ricordo così. Spesso, da anziana, soleva ripetere alle ragazze giovani : “Sarei dovuta nascere in questa stagione della società, come voi”.

Lina, la ragazza che aiutava mia madre, era graziosissima. Era stata sottratta a una famiglia numerosissima, a un padre violento. Si curava di me ragazzino e di Roberto, mio fratello più piccolo. Ricordo che aveva un modo tutto suo di lavarmi bene le mani. Insaponava le sue e le passava sulle mie con cura, dolcemente, con una carezza avvolgente. Aveva circa quattordici anni. Una sera mi accolse nel suo letto e guidando la mia mano si fece accarezzare tra sorrisi eccitati, per un suo piacere e per assecondare il mio ruolo di maschio, di cui conservo un piacevole ricordo.

Trascorrevo le giornate serenamente, in semplicità. L’aria, la luce e non so dire che altro, mi regalavano fantastiche magie.

[La luce: un giorno, insegnavo all’Istituto d’Arte di Napoli, e mi venne di discuterne con i miei studenti sulla luce, sulla diversità dell’effetto prodotto sulle cose su cui si rifletteva]

Mauro, mio fratello maggiore, somigliava a Tex Willer, creato da Galep il disegnatore ispirato dall’attore Gary Cooper, protagonista del film “Mezzogiorno di fuoco”. Riuscitissima la proposta figurativa di atteggiamenti dettati da personale dignità e giusta scelta tra il bene e il male.

Mauro: bello, dignitoso e ribelle, combattivo contro ogni atteggiamento vessatorio nei confronti dei più deboli, era anche un “Mago” per noi piccoli. Aveva imparato a eseguire magie semplici, che a noi risultavano sorprendenti. In un suo mobiletto custodiva i “segreti” dei giochi di prestigio. Mauro, Roberto ed io eravamo l’ orgoglio di mia madre che ci considerava come “I miei tre moschettieri”. Roberto il più piccolo era il più coccolato e da Mauro si pretendeva di più. A me era richiesto di risolvere problemi pratici e per Roberto, mamma era decisa a portare a termine l’impegno di farlo laureare.

Più di una volta l’ho vista piangere per le nostra difficoltà economiche, ma non si è mai disperata, grazie alla tenacia nel superare ogni avversità.

“Provolone”, soprannome di un uomo alto un metro e novanta, dinoccolato, sempre sorridente, capelli di un nero totale, fronte spaziosa: raccontava di aver maneggiato armi durante le giornate della rivolta napoletana contro le truppe tedesche. Si arrangiava con piccoli traffici. Ci forniva i fuochi d’artificio, da sparare a Capodanno. Il prezzo lo contrattava con mio zio Pezzy, versione affettuosa, americaneggiante di Pasquale nel gergo di mia nonna. I fuochi si trovavano nell’ultima stanza a destra del lungo corridoio, in una grande valigia di cartone, fino al momento di spararli.

La contrattazione sul prezzo: “Dotto’ chist’ song e’ meglie fuoche’ e Napule”. E mio zio: “Si e vuo’ duemila lire, bene, e no ’na lira e cchiù”. “Vuie paziate dottò, io ve facc’ sparà a meglia’ batteria do Vommer”. Alla fine si accordavano su un prezzo più alto, ma Provolone aggiungeva altre ‘botte a muro’, razzi e ‘tric-trac.’

Una sera entrai soppiatto nella stanza proibita. Nella penombra   camminavo come in uno luogo da favola tra fuochi colorati, che di lì a poco avrebbero dato luogo a una furiosa battaglia con quelli sparati dai palazzi di fronte.

A me non è mai piaciuto il fracasso e anche meno quello dei fuochi d’artificio. Mi rifugiavo nella braccia di mia madre nel corridoio parallelo alla balconata, dove gli adulti, cioè gli zii, accendevano le micce dei tric-trac, dei razzi infilati nelle bottiglie vuote di spumante inclinate verso l’alto, come piccoli mortai. Mio fratello Mauro, i cugini Sergio e Renato, che veniva a Napoli per le festività, provvedevano a tenere vive le fiammelle delle candele, pronti ad accendere i fuochi. Mio padre sparava dal piccolo balcone laterale, dalla camera di mia nonna. Era specializzato nel far esplodere le ‘botte a muro’. Con un salto, lanciava di sotto con violenza, tre botti per ogni mano. Io e mia madre, spaventati, ma ridendo, ci abbracciavamo. Ancora oggi non sopporto il rumore violento dei fuochi ma a quel tempo, a ben pensarci, erano giustificati, suscitavano riferimenti alla libertà conquistata con la fine delle guerra, dei devastanti bombardamenti dei B52 americani. Mia madre mi raccontava con raccapriccio che quando arrivavano le formazioni degli aerei, si oscurava il cielo per quanti erano.

Nonna Angela, piccola di statura, carattere forte e amorevole come gran parte delle donne del sud, era instancabile nella quotidianità dei lavori domestici. Al mattino, quando lavava il viso bellissimo con l’acqua fredda, piegata sul lavatoio nella piccola veranda, raccoglieva i capelli in una crocchia. Ha partorito tredici figli ed era innamoratissima del marito, un bell’uomo dal carattere tipico della gente del Sud, affettuoso, ma al tempo stesso distaccato, un po’ burbero, a tratti padre-padrone. Lo aveva sposato alla giovane età di diciassette anni negli Stati Uniti, dove si erano conosciuti e dove avevano avuti i primi sei figli. Tra la prima e la seconda guerra mondiale il nonno l’aveva mandata con i figli, in Italia, procurandole un grande dolore. Rientrò anche mia madre, nata a Kenosha, nello stato del Wisconsin. Gli altri figli, la nonna li avrebbe concepiti durante i brevi soggiorni del marito a Napoli. Lui era proprietario di un’accorsata e grande farmacia in America e ha sempre provveduto al sostentamento della famiglia in Italia. Una fotografia scattata durante i tempi difficili della guerra, ritraeva i componenti della famiglia in condizioni fisiche non ideali e il nonno la rispedì commentando con enorme dispiacere la magrezza di tutti noi.

Anche nonna Angela, a detta di mia madre, era severa, soprattutto con le figlie femmine e quasi priva di slanci affettuosi. Con i nipoti era tutta un’altra cosa. Qualunque cosa combinavamo, ci sgridava solo raramente. Mi capitò di non tappare il contenitore dell’olio, che cadde a terra e lei non mi rimproverò: “Ti sei fatto male…no? E allora pienz’ a salute, meglio isse n’terr ca’ nui. Nun te preoccupà, ricordati che pè tutt’ e cose ce stà semp’ ’na soluzione, sulo ’a morte nun c’è rimedio”. Le sono sempre stato grato per la sua qualità tranquillizzante, che ha reso anche la mia infanzia felice.

La cucina, il regno di nonna Angela. Quando era alle prese con la frittura di una montagne di bionde cotolette, patatine fritte, zeppole, frittelle, chiacchere e altro, guai ad entrare in cucina. In quei momenti era permesso solo a Liliana, la nostra bellissima cugina.

Restare incinta per la nonna era motivo di gioia, quasi un modo di sentirsi vicino al marito, all’uomo di cui era innamorata. Non faceva mistero del piacere fisico che le procurava il marito e parlandone con gli adulti diceva: “L’omm’ mio, sotto è pesante”, affermazione di laica mediterraneità. A proposito dell’amore e della fisicità, quando le presentai Libera, la mia ragazza, di piccola di statura, bellissima, le sussurrò all’orecchio: “Tu sì piccerella, quanno fai ammore miettete ’a coppe”. Libera fu evidentemente colpita. Una donna nata alla fine dell’Ottocento ammetteva che due ragazzi così giovani e soprattutto non sposati, facessero l’amore e suggeriva anche posizioni particolari dell’amplesso, in contemporanea con la sua visione rispettosa di sentimenti tradizionali.

Era il tempo dell’esordio negli anni sessanta, del movimento femminista, di valori culturali e politici ad alta intensità, di creatività progressista che tentava di influire sul comportamento maschilista e coinvolse gran parte del mondo nell’obiettivo dell’emancipazione della donna, di pari passo con le lotte operaie per la conquista dei diritti civili, evento di grande spessore politico e culturale del ‘900.

In nonna Angela coglievamo spesso l’interessante modernità di donna che solo per la sua data di nascita si poteva considerare d’altri tempi. Un esempio, relativo all’evento dello sbarco sulla luna, che tenne tutto il mondo con il fiato sospeso: c’eravamo riuniti tutti davanti al televisore e quando in modo concitato i commentatori televisivi confermarono che gli astronauti avevano poggiato i piedi sul suolo lunare, ci convincemmo che si fosse compiuto l’evento, ma ora affiora qualche dubbio e cresce con il trascorrere del tempo.

Da ragazzo mi sconcertavano la sensazione di immensità dell’Universo, le leggi spaziali che lo governano, l’ipotesi che esistano altri pianeti con forme di vita, ma inarrivabili e chissà se soggette all’inarrestabile fenomeno della trasformazione della materia.

Se mai esistesse un progetto universale, penso che sarebbe eticamente, tragicamente sbagliato, a giudicare da quanto domina il nostro pianeta: paura, dolore, fragilità umana. Consola pensare che a tutto questo non corrisponde un’entità, una volontà superiore, che avrebbe elaborato un progetto cosmico, che l’essere sulla Terra con le sue trasformazioni è condizionato dalla “casualità”, da dinamiche compatibili con le esigenze di adattamento ai processi evolutivi.

(Fine della seconda puntata. Continua)

Via Morghen, strada collinare del Vomero. Al numero 82 in un palazzetto del primo ’900, si entrava dopo aver percorso un breve viale tra due giardini laterali. Il frontale si distingueva per un che di classico e per gli stucchi nell’ ampio androne a cui e si accedeva superando tre scalini arrotondati alle estremità, comodi perché larghi, bassi e dell’altezza giusta per sostenere il pedale delle biciclette, che depositavamo dopo lunghe scorribande nelle strade di San Martino, dolcemente assolate, ma anche sferzate da un’aria frizzante sul volto accaldato. L’edificio delle nostre abitazioni era adiacente alla funicolare di Montesanto, in stile liberty, con la tettoia di tegole di cotto a coprire l’area di sosta delle vetture, sorretta da colonnine in ghisa con capitelli di color verde bottiglia; l’entrata e l’uscita erano poste in basso a destra e a sinistra della facciata dipinta di bianco luminoso. Nel frontespizio, classicheggiante, era inserito un orologio, che non so perché sentivamo amico.

Lateralmente, rispetto alle nostre case graziose villette in pietra erano immerse nel verde in un’area trapezoidale, parzialmente accessibile. Il lato più lungo ospitava un laghetto con i pesci rossi. Durante le passeggiate con mia madre, era una tappa “obbligata”. In piedi, sul basso muretto chiuso da un’elegante cancellata mi concentravo osservando i cerchi d’acqua provocati dai pesci in movimento.

Ora tutti è cambiato. Al posto delle villette si erge un orribile palazzaccio di molti piani, opera della speculazione laurina degli anni sessanta. Al posto della nostra costruzione c’è adesso un orrendo edificio in vetrocemento adibito ad uffici della circoscrizione. E la nuova funicolare? Un esempio di pessimo gusto. La facciata è rivestita di lastre di granito beige, abituale nei cimiteri, frontale e laterali sono di colore nero, con sovrapposizioni di cilindri in rosso, forse per un velleitario tocco di modernità voluto dai progettisti.

Dove la luminosità di Napoli è più intensa e l’aria collinare includeva  equilibrate costruzioni, al posto del cotto, degli stucchi, della pietra, del bianco, un continuum di pessimo gusto provoca un crescente senso di straniamento, oltre che testimoniare frenetiche attività quotidiane.

Nella parte laterale del nostro palazzetto, il primo piano era adibito ai servizi e includeva la cucina con la veranda chiusa da vetri smerigliati e colorati. Di lì si vedeva il terminale delle vetture. Il momento dell’uscita dei passeggeri coincideva con l’impertinente opportunità di lanciare su di loro, fichi maturi e palloncini pieni di acqua, prima di fuggire per sottrarci alla vista del personale, con cui eravamo in conflitto. Il lato del viale a ridosso della funicolare era delimitato da un muro non molto alto e quando giocavamo, se la palla, per tiri maldestri finiva nell’area della funicolare i dipendenti non ci restituivano la palla.

Comunque, che stagione felice della nostra stagione di ragazzi! Fratelli, sorelle, cugini: eravamo in otto e a noi si univano spesso altri cugini di Roma, alcuni amici, oltre a ‘compagni di strada’. Ci divertivamo con biciclette, pattini a rotelle, monopattini, armi giocattolo, palloni, corde per saltare e il ricordo sonoro è un rumoreggiare non tollerato dalle persone anziane o comunque da chi abitava ai piani inferiori dei palazzi. La zona inferiore del palazzetto ospitava quasi per intero la casa della nonna, degli zii e della mia famiglia. In un piccolo appartamento viveva la ‘vecchia Grigolata’”, che per noi era la strega. Diventato adulto, mi sono reso conto che in realtà era una dolcissima vecchietta. Incredibilmente mi cugina Liliana era intimorita dal busto in marmo posto in fondo al corridoio, molto somigliante al nonno che si era trasferito negli Stati Uniti. Un gioco, per tutti noi, era andare su e giù lungo la scala con i pattini a rotelle ai piedi. La discesa era più facile, scivolavamo con il sedere o la pancia sull’ampio corrimano, la salita meno agevole.

Il sonoro dei nostri giochi contrastava con l’austerità del sontuoso androne che si apriva in un corridoio e la prima rampa delle scale, la casa del portiere. In fondo una grande porta a vetri dava accesso al cortile. Oltre il primo tratto di scalini in un ampio pianerottolo aveva inizio la seconda rampa, opposta alla prima. Le pareti dell’androne erano colorate di un indaco delicato, che accresceva il senso di grande spazialità. Ai lati,  due nicchie contenevano figure femminili in stucco bianco, di buona fattura. Per noi tutto questo era funzionale al gioco.

Uno dei due giardini del viale d’ingresso, il nostro, era arricchito da aiuole e da un roseto collocati in modo da consentirci di poterle costeggiare con la bicicletta. Un albero di limoni era il luogo dove fantasticare, inventare personaggi immaginari, astrarci da tutto.

Si giocava a pallone fuori del viale, in uno slargo della strada, e se un’ automobilista intendeva parcheggiare una delle rare auto dell’epoca in un modo che giudicavamo ‘invadente’, gli chiedevamo di spostarsi. Sorprendentemente l’autista lo faceva e perfino con un sorriso.

Il nostro regno confinava con la campagna lungo la via Bonito, ora fitta di case, senza soluzione di continuità e le collinette attorno al Castel Sant’Elmo, dove ci univamo ad altri ragazzi del quartiere. I ricordo è incompatibile con l’immagine dei ragazzi di oggi, presi totalmente da smartphone, tablet, drogati dalla dipendenza da computer, che indica l’avvenuta trasformazione antropologica in atto.

In via Morghen passava il tram e una fermata, proprio all’altezza del numero 82, era l’occasione di nuove birichinate. Come gli scugnizzi di altri quartieri della città tiravamo giù il cavo del troll e il tram non poteva ripartire senza l’intervento del bigliettaio che lo risistemava. Un’altra marachella: piazzavamo una pietra di tufo sulla rotaia e il conducente era costretto a sua volta a scendere per rimuoverla. Durante le soste forzate, dai due lati del tram facevamo partire con le cerbottane ‘coppettti’ di carta arrotolata con la punta bagnata di colla lasciata a indurire. S’infilavano nei capelli o nei cappellini delle donne, accompagnati dal nostro ‘grido di guerra’, del tipo ‘assalto alla diligenza’.

Era la stagione del sentirci felici, bella, mai noiosa. La ‘nota dolente’ era la scuola, l’incubo di alzarmi presto, al punto di chiedere a mia madre di frequentare una scuola serale. Il risveglio mi sbalestrava e solo ora, per aver letto le ricerche sul tema, ho scoperto che in alcuni individui e soprattutto nei giovani, il riposo mattutino è indispensabile per un normale equilibrio psico-fisico. Non ce la facevo proprio ad alzarmi. Potevo leggere e giocare fino a tarda sera e una volta a letto sognavo ad occhi aperti per buona parte della notte. L’immaginazione si associava spesso a squilibrio termico, freddo ai piedi e quando finalmente arrivava il caldo mi assopivo, pago delle fantasie elaborate. Mi scuoteva dal sonno la voce di mia madre che dolcemente, ma con autorevolezza, ripeteva “Renato alzati, fai tardi a scuola”.

Mi piacerebbe risentire quelle parole e le altre, quando a sera mi rimboccava con un sorriso le coperte: “Vola veloce con il tuo missile, la luna ti aspetta”.

La scuola. Il ricordo è associato all’inverno, al freddo, all’affrettare il passo per non tardare, alla sosta frettolosa per comprare le castagne lesse, su invito urlato dal venditore: “Vui verit’ c’allesse”. Le castagne bollenti riscaldavano le mani. In fondo non mi dispiaceva entrare a scuola, incontrare i compagni e compagne sorvegliati dalle suore francesi. Credo di essere stato ingenuamente innamorato della dolcissima superiora. Quando mi abbracciava il mio viso affondava nei suoi morbidi seni e il piacere compensava il disagio di rimanere per ore in aula, la monotona ripetitività dei compiti da svolgere, la mancanza di interesse per i perché insoluti, che se appagati configurano la giusta relazione tra apprendimento scolastico ed evoluzione.

Forse solo a partire dagli anni sessanta è nata l’attenzione per la “programmazione interdisciplinare” e la giusta distribuzione metodologica che dà senso e profondità a una razionale struttura di programmi utili al percorso modulare.

Oggi purtroppo c’è un ritorno al programma per il programma, alla quantità più che alla qualità, che costringe i docenti a gareggiare per inserirne quanti più è possibile. Conterebbe invece che la scuola sia il percorso dei ‘perché svelati’, che insegni il modo di studiare e imparare improntati   alla curiosità intellettuale, per approdare a conoscenze da non dare mai per scontate. Una delle meraviglie è la scoperta delle differenze e delle eguaglianze: i paesaggi, la materia, i fenomeni, le abilità, le persone.

Le diversità hanno popolato i miei sogni ad occhi aperti; mi sono innamorato mille volte di donne molto più grandi di me, perché inarrivabili, con i loro corpi maturi, i sorrisi invitanti, gli occhi dolcemente intensi. Mi sono innamorato delle mie coetanee, della loro ingenuità accattivante. dei loro corpi esili, di adolescenti.

(Fine della prima puntata. Continua)

Stefania è in volo con la British Airways, nello zainetto poche lire, l’attestato del ‘proficiensy’, massimo riconoscimento rilasciato dal Bristish CouncilInstitut e la stampa della invito promozione che la London School of Economics diffonde su internet, con cui sollecita l’interesse internazionale per i suoi prestigiosi corsi di laurea esentasse. In attesa del sì alla domanda d’iscrizione al corso di Marketing, è ospite au pair di Jean e Mirelle Leclerque, che impegnati per l’intera giornata con le rispettive attività, le affidano la cura della loro bambina. A sera Stefania completa la giornata nell’accorsato pub “Central Park”, dove co lei lavorano altri due ragazzi italiani.

Il messaggio sul cellulare è destinato a segnare la vita dell’intraprendente italiana che nella sua città ha sperimentato il disagio dell’equazione lavoro precario-futuro-incerto-retribuzione- indecente-in nero: “La sua domanda di iscrizione è stata accolta dalla direzione di questa Università. La invitiamo a…”

Coniugare studio e lavoro, facile non è e soprattutto se ledue attività sono incompatibili con l’ impegnativa trafila universitaria della famosa università inglese, ma la determinazione di Stefania e l’orgoglio di puntare a una laurea prestigiosa senza contare sull’aiuto finanziario della famiglia, ha la meglio sulla stanchezza, la mancanza di sonno, lo stresss. Ogni giorno, dalle sei del pomeriggio alle 22, continua a servire birra nel pub di Kensington Place.

Non pretende di superare tutti gli esami anno dopo anno con punteggi d’eccellenza, ma non ne lascia neppure uno fuori corso. Una delle materie poco affini al percorso scolastico classico, la statistica, è il primo ostacolo che comporta difficoltà impreviste. Stefania intuisce che l’emergenza richiede una risposta positiva al suo ‘sos’.

Si chiama Harry il giovane britannico del Nord che per assecondare la vocazione per la scienza dell’economia ha lasciato la sua Leeds, distretto metropolitano  nella contea  del West Yorkshire, con la prospettiva di diventare un manager della City.

“Harry, so che hai in programma l’esame di statistica. Se lo preparassimo insieme?”

“Sì, con piacere. Domani, alle 9, come sai, comincia il corso con il prof Roberts, ci vediamo un po’ prima, per trovare posto in aula nelle prime file. Prendo io gli appunti, so stenografare”.

Lo stare insieme per ore va inevitabilmente oltre il reciproco interesse per la preparazione dell’esame. Harry scopre giorno dopo giorno le qualità di Stefania, ne condivide la passione politica ereditata dal padre, l’ideologia della giustizia uguale per tutti, della solidarietà, dell’onestà. La stima reciproca evolve rapidamente e un sabato sera, aspetta Stefania a fine turno, davanti al pub.

“So che sei stanca, ma devi pur mangiare e stasera mi piace risparmarti di preparare la cena. Conosci il ristorante italiano “Quattro passi”? Noo? Colmiamo subito la lacuna. Permettimi di invitarti” .

Cena raffinata, cucina napoletana di qualità, vino da ristorante stellato, atmosfera ideale per una serata molto speciale che si conclude come i due giovani hanno desiderato. Rietrano nel college e non si separano come vorrebbe la distanza delle due ali dove abitano da interni dell’università.

“Stefania non mi va di lasciarti. Che muisca hai nella tua stanza?”

“Una compilation dei Beatles, un dvd doppio di un grande cantautore che certamente non conosci, un poeta di rara sensibilità. Si chiama De André. L’ultimo di Elton Jones. Che ne dici?”

La sveglia di Stefania trilla alle sette in punto, ma dopo una notte insonne la mano zittiscea a occhi chiusi la suoneria.

Nessuno dei due ha voglia di occuparsi di teorie della scienza statistica. Violentano senza pentirsene il senso del dovere che li accomuna e rimangono a letto fino alla fine della mattinata.

Si sposano in Italia, nella Chiesa che si affaccia sul lago di Bracciano e a tarda sera s’imbarcano sul volo Alitalia che atterra a Gatwick. La coincidenza per le Bermuda è per l’indomani e la prima notte da marito e moglie la trascorropno nell’hotel dell’aeroporto.

Il postino, infila nella buca della cassetta interna della posta la lettera spedita da Viola, prima nipote di Stefania, che compiuti i diciotto anni decide contro la volontà dei genitori di “emanciparsi” provando a cavarsela da sola a Londra. L’intenzione, purtroppo per lei, è destinata a svanire. Viola non è informata sulle conseguenze della Brexit, che vieta il soggiorno nel Regno agli stranieri privi di un lavoro altamente qualificato e che non siano padroni della lingua inglese. Pub, ristoranti, alberghi, cioè le strutture che in massima parte hanno dato lavoro ai giovani italiani, non sono più autorizzati ad assumerne. Sono tabù i settori dell’ospitalità, dell’assistenza e della ristorazione, dell’edilizia. A transizione completata, la Gran Bretagna non può più dare lavoro di bassa qualificazione.

“Cara Viola”, risponde Stefania, “Mi spiace davvero. Per fare la tua esperienza devi pensare a un Paese che non sia l’Inghilterra. Qui si concede il visto di soggiorno solo a chi ottiene un contratto di lavoro da venticinquemila sterline in su, se ha un titolo di studio specifico ed è qualificato per un’attività in settori con carenza di occupazione.

Tutto questo si deve al sovranista Boris Johnson, al nazionalismo anacronistico di gran parte del popolo britannico e forse è un bene che ti impedisca di venire a Londra, considerato il clima di ostilità nei confronti degli stranieri. Finisce un’era. L’assurdo è che restano aperte le corsie preferenziali per le eccellenze nei comparti della scienza ad alto livello o comunque di cervelloni. È difficile accettare le chiusure nazionaliste della Brexit e gli inglesi capiranno in che tunnel si sono infilati quando sarà impossibile coprire la domanda di personale per lavori svolti con bassa remunerazione da italiani, polacchi, neri; quando la fuga delle holding dalla city cancellerà il ruolo di centrale finanziaria europea detenuto s da Londra. Cara Viola, per fortuna non esiste solo la Gran Bretagna e sono certa che potrai realizzare l’obietivo di sentirti cittadina del mondo in un Paese più accogliente”.

Malmö, polo industriale della Svezia, città caratterizzata da un forte carattere multietnico: il 28% della popolazione ha origini straniere, di 170 diverse nazionalità e 100 lingue.

Clarion Hotel & Congress Malmo Live, a 300 metri dalla stazione centrale, grande hall e sulla destra l’imponete reception: Viola affianca Ernest, portiere di notte e smonta alle sei del mattino. Ha una sua stanza al piano terra dell’hotel, guadagna abbastanza per accendere un mutuo e comprare un appartamento nella zona centrale della città. La direzione dell’albergo le ha promesso di promuoverla nel ruolo di organizzatrice degli eventi programmati per i due anni a venire.

“Cara Stefania, avevi proprio ragione. Il mondo è grande e l’Inghilterra si pentirà di essersi auto esclusa dal circuito internazionale. Un abbracio, Viola.”

La tecnologia, il design, il marketing, non trascurano nulla di quanto è parte della vita in questa stagione dell’innovazione che insegue se stessa a ritmi sempre più sostenuti: il ferro da stiro, poteva sottrarsi al processo globale? Ovvio, non poteva e la pubblicità cattura l’interesse delle stiratrici di professione, di chiunque usi lo strumento che completa il ciclo lavaggio-asciugamento. Ma so no gli antenati del ferro che hanno una storia da raccontare.

Mangiare, mangiavano e facevano l’amore anche allora. Per un appuntamento galante tenevano all’aspetto quanto e forse più che in questa fase della storia che tende a omologare tutto. Le nostre antenate hanno indossato già quattromila anni fa vesti di foggia e tessuti d’epoca, tenuti in ordine grazie ad aggeggi primordiali per la stiratura. È probabile che abbiano adoperato una pietra pesante, liscia per un vestire con l’eleganza del tempo: tuniche, kitoni finemente drappeggiati, arricchiti da pieghettature perfettamente stirate. Che esistesse la plissettatura è visibile nelle vesti dei faraoni, immortalate negli affreschi delle tombe egizie. Alla ‘machine’ dell’epoca, aggeggio piatto in legno, marmo, terracotta, era complementare l’uso di una soluzione gommosa capace di fissare il garbo dei tessuti. Per non appesantire lo sforzo richiesto dalla stiratura, senz’acque e calore, si perfezionò lo ‘strumento’ con l’invenzione made in China della piastra riscaldata da carbone incandescente o sabbia calda posti in un contenitore in bronzo con manico in legno, soluzione adottata anche nella romanità, nel ‘Funiculum’ dove si adoperava una miscela di acqua, sapone e urina umana.

Dopo molti secoli arriva anche dalle nostra parti, grazie ai contatti con l’Oriente, la tecnica della stiratura a caldo. Da quell’incipit s’infittisce l’impegno a migliorare le prestazioni del ferro da stiro per assecondare il design e l’uso di materiali diversi. Si apre la gara per ottenere il primato di forme e funzionalità, fino a toccare l’apice della creatività e dell’abilità produttiva dell’800. Il ‘repassoir’ è riscaldato in forno e pressato bollente sui tessuti per lisciarli e fissare le pieghe. Il manico di metallo torna a essere in legno. La moda domina sempre di più gli scenari di una società attentissima all’estetica. Nasce il ferro alimentato a gas e tramonta la civiltà del ‘fai da te’, scalzata dal tempo dell’industrializzazione. I vecchi ‘lisciatoi’ vanno in pensione.

Una vera rivoluzione si deve a Henry Seeley, che mette a punto un ferro da stiro elettrico, del peso di sei chili! L’invenzione non ha vita lunga. Dopo poco lo soppianta il ferro a vapore che monopolizza il mercato, perché gradito dalle massaie. Il successo diventa plebiscitario nella prima parte del 900, adottato dalle donne sollevate dalla fatica dei vecchi ferri. Le varianti: è firmato da Kabyles il ferro a lingotto specializzato nella stiratura delle cuffie di pizzo, delle fodere dei cappelli. Consentiva di infilarlo all’interno degli accessori dell’abbigliamento. Il Kabyles è infatti più appuntito e privo di incavo, adatto a stirare gli stravaganti cappelli delle signore dalle forme più bizzarre, passe par tout da infilarsi nelle minute piegoline dei tessuti. Dal 1700 il settore si arricchisce di ferri con piastre ondulate adatte a stirare colletti e maniche delle camicie. I cappelli maschili? Ma certo, si trattavano con strumenti capaci di seguire le curve della loro parte alta. E il panno dei biliardi? Per riscaldarlo ed eliminare le pieghe, nemmeno a dirlo, fu inventato un ferro ad hoc.

Tempi moderni. Da ottanta e più sfiatatoi sbuffa bollente il vapore. La macchina che lo genera avanza lieve, maestosa. La carenatura è lucente, aerodinamica. Sembrerebbe disegnata nelle gallerie del vento. Il repassoir si porta dietro il flessuoso cordone ombelicale, fornitore di energia, flessibile, elastica coda avvolta in spirale. In plancia di comando campeggia la centrale operativa con spie luminose, griglie zigrinate, indici e variatori di potenza, termostato. Affascina la manovrabilità, incanta l’incedere soft della piastra, che tutto appiana e ripristina le forme perdute.

Non c’è casolare sperduto o villa sontuosa, albergo, casa popolare, attico o garconniere dove il ferro da stiro non sia presente. Grammaticamente maschile, il ferro parla però al femminile. È ‘plancia’ per gli spagnoli, ‘flat-iron per gli inglesi e repassoir in francese. In italiano ferro da stiro, dizione che sostituisce l’antica di ‘lisciatoio’.

Lo strumento in questione è diventato oggetto di interesse del collezionismo per motivi estetici, di qualità dei materiali, in continua evoluzione. I ‘mercati delle pulci’ (Porta Portese a Roma è uno dei famosi, i dintorni della piazza Sindagma di Atene i bazar parigini) sono veicoli primari di vendita dei pezzi pregiati perché antichi o particolari. In Francia esiste il ‘Club International de amis des fers a repasser anciens’, memoria dell’oggetto, documentazione di forme e materiali, editore di un’enciclopedia di settore. Il City Museum and Art Gallery di Hong Kong espone una casseruola di bronzo, preziosa. Nella villa di Aulo Vetio Restituto e Aulo Vetio Conviva una pittura murale risparmiata dall’eruzione raffigura una giovane donna alle prese con un ‘pressorium turcularium’. Nel mondo intero il ferro da stiro ha una collocazione rilevante nell’attenzione degli operatori culturali.

Nennella, attratta dal titolo ‘Ferri vecchi’ si ferma alla pagina 17 e chiude il libro edito da Intra Moenia, racchiuso in un cofanetto che include una ventina di fotografie di ferri da stiro di ogni epoca. Il seguito lo ha letto con la sperimentata tecnica della visione contemporanea di tre o quatto righe, adottata da chi intende arrivare rapidamente alla conclusione del libro. Alle prese con un montagna di panni da stirare è come infastidita dall’enfasi del racconto celebrativo del ‘ferro’, che ignora il capitolo della fatica addossata alle donne per l’iniqua divisione dei compiti all’interno della coppia. Nennella non è tendenzialmente invidiosa, ma non può fare a meno di pensare alle fortunate, economicamente agiate, che consegnano i panni alla stireria e se li vedono restituire pronti da indossare.

[Le camicie. Beppe dovrebbe apprezzare il tempo e la pazienza che richiede stirarle e soprattutto non dovrebbe lamentarsi se un polsino o un colletto non sono apprettati alla perfezione. Ore e ore per completare il lavoro. Per fortuna posso farlo con la radio accesa che trasmette musica italiana, la mia preferita. Chissà se dice il vero la pubblicità dell’aggeggio leggero, maneggevole, che emana vapore e passato sulla biancheria la stira perfettamente con poco sforzo. Ma poi, ora che è inverno e fa freddo, perché Beppe non indossa a turno uno dei tre pullover a collo alto e lascia nel cassetto le camicie? Il lavoro che fa non impone cravatta e camicia e risparmierei gran parte della fatica. Quasi mi dispiace che mia madre mi abbia insegnato e molto presto a stirare.

Mia sorella Annella ha sempre evitato di imparare. Ora che è sposata, nonostante non navighi nell’oro, ha ottenuto dal marito di servirsi della stireria che ha il locale sotto casa. Parole sante negli scritti di Emile Zola nel suo ‘Assomoir’: “…insaponano, modellano, strizzano, sciacquano, si piegano sotto pesanti tinozze che segano schiena e braccia…il caldo è insopportabile, la polvere soffocante, puzzano le piramidi di biancheria sporca, il sudore delle donne grondanti…si prosegue fino a mezzanotte, il sabato fino all’alba della domenica, per consegnare ai clienti i vestiti della festa”. Nel racconto di Zola tutto questo precede le note sul faticoso lavoro della stiratura e testimonia l’indignazione dello scrittore per lo sfruttamento selvaggio delle donne…bastonate per mandar via il sonno, mani bruciate dai ferri incandescenti presi dal fuoco senza protezione”. Certo quell’epoca appartiene a un passato buio, imparagonabile al lavoro più lieve con i ferri da stiro scorrevoli di oggi, ma Zola ricorda che il compito resta comunque sgradito alle casalinghe e io lo confermo, non è per niente gradito].

Chissà se chi colleziona ferri da stiro ha grande rispetto per chi ne fa uso pressoché quotidiano: probabilmente no, come chi non pensa alle mani dei neri a cui si devono le statuette in legno d’ebano comprate per somme irrisorie, che finiscono in minima parte nelle tasche di chi le ha scolpite.

Perché appena desto, il cervello mi ha inviato la parola ‘astrolabio’ e neppure ricordo che accidenti significa. Interrogo il Devoti e Oli: “antico strumento per la determinazione dell’altezza del sole sull’orizzonte”. Boh, che c’entro io? Non ho sognato il sole al tramonto e mi destabilizza anche di più l’incomprensibile sorprendermi a canticchiare mentalmente  i primi versi della canzone ‘Tu vuo’ fa l’americano, di Carosone”). Fino all’una dopo mezzanotte ho seguito il Festival di Sanremo e mi ha emozionato la dolcezza di Tosca, anche di più leggere da internet  che dice di sé “Sono di sinistra, contro l’odio”. Che c’entra Carosone?

Strano giorno. Si è aperto con stranezze insensate, che mi piacerebbe affidare alla scienza interpretativa di un bravo psicanalista, ma il tempo delle inutili riflessioni è scaduto, scalzato dalla odiata necessità di gesti e azioni quotidiane.

Doccia: molto calda o tiepida, capelli inclusi o no. Stamattina senza sapone come suggeriscono i dermatologi per non privare la pelle di elementi protettivi? Ok, finito. La barba no, domani, ora va bene così, chiara com’è, nemmeno si nota. La base della doccia, l’avverto sotto i piedi, è scivolosa. Colpa di residui di sapone del giorno prima. Con un  piede fuori dell’anta di vetro cerco l’infradito che continuo ad usare anche se l’estate è oramai lontana. L’altro piede perde la presa sulla ceramica del fondo doccia e slitta pericolosamente all’indietro. Perdo l’equilibrio e per evitare il peggio mi getto in avanti con le mani protese a evitare di finire con la faccia sullo spigolo del marmo che copre il mobiletto dove trova posto con  l’occorrente per il trucco della mia compagna e per la mia barba. Urlo di dolore. Micidiale l’impatto della mano sinistra con il marmo. Porc…fa un male cane, contusione, frattura?

Frattura del metacarpo dell’anulare. Al pronto soccorso provvedono a operare la diagnosi con l’aiuto della radiografia. L’osso è leggermente fuori asse. La prescrizione: riposo di venti, venticinque giorni e la protezione di un tutore rigido che mi dicono “può anche toglierlo di notte”.

Ti accorgi di avere due mani quando una è fuori uso, di avere i denti se dolgono per le carie. “Meno male, è la sinistra. Meno male un corno, è tutto difficile. Fare la barba, infilare ai piedi i calzini…scrivere al computer con una sola mano, tagliare il pane, la carne, evitare urti (chissà quante volte è successo alla mano sana senza rendermene conto).

Le mani. A cosa servono le mani? Provo ad associare la meraviglia della loro funzionalità alla storia degli esseri umani. Senza le mani l’evoluzione della specie non sarebbe mai avvenuta. Le mani hanno inventato il fuoco, hanno cacciato le prede per la sopravvivenza, coltivato la terra, costruito città, hanno scritto, dipinto, accarezzato, intrecciato le dita in segno di amicizia, alzato al cielo trofei sportivi, ispirato canzoni della solidarietà (Endrigo:“Se  tutta la gente si desse una mano,  se il mondo finalmente si desse una mano, allora ci sarebbe un girotondo intorno al mondo”).

Ho pensato alle mani di Leonardo da Vinci, ai suoi disegni che hanno anticipato di molti secoli l’innovazione tecnologica dell’era moderna, alla penna tra le dita di Dante Alighieri, alle mani del dottor Barnard, che primo al mondo con il trapianto di cuore al mondo di cuore ha dato la vita a chi l’avrebbe persa, alle mani giunte di Ghandi, a quelle segnate dalla fatica degli operai, di chi semina e lavora la terra, a quelle di chi assiste come  volontario i disabili,  gli anziani, alle mani degli eroi di Emergency, della gente di mare che salva vite di migranti e in ultimo alle mie che hanno avvolto le due figlie appena nate, che hanno stretto le loro nei momenti delle grandi emozioni, che hanno battuto sulle vecchie macchine per scrivere, poi sul ‘commodore’, antesignano del personal computer, sul Mac della Apple, tutti strumenti di vita di giornalista e scrittore.

E il rovescio dolente della medaglia. Le mani della violenza, degli omicidi, dei violentatori strette intorno al collo delle vittime, le mani avide dell’usura, quelle di chi impugna la pistola, spara e insanguina faide malavitose, le mani che non sanno amare, le mani sporche di denaro rubato, che finanzia traffici illeciti, guerre, che arma le dittature.

L’impedimento della frattura mi induce a consultare internet per indagare la straordinaria duttilità di questo tramite dell’uomo con quanto lo circonda. A vederla nella trasparenza dei raggi X denuncia perfezione, esprime duttilità, capacità prensile, straordinaria forza e insieme la delicatezza che consente di applicarsi a lavori di cesello, a interventi microscopici in chirurgia, oreficeria, nella pittura.  Nella mano, lo direste mai?, ci sono 27 ossa che l’anatomia classifica in carpali, le più prossime allo scheletro della mano, metacarpali in posizione intermedia e nelle 14 falangi, con inserzioni ai tendini e ai muscoli. Ma in termini di funzionalità, a cosa servono le mani? Ad afferrare gli oggetti, percepire attraverso il senso del tatto, a comunicare, garantire stabilità durante i primi anni di vita, quando l’essere umano cammina ancora a quattro zampe. Imparo a mie spese la connessione tra le componenti della mano. Mi sono fratturato il metacarpo del dito medio, ma i riflessi del dolore si propagano anche alle falangi del mignolo e non riesco a stringere nulla. L’immobilità influenza la temperatura della mano che è inferiore di molto a quella dell’altra. Mi coglie impreparato un crisi di panico, non intensa, ma prolungata. Che vita sarebbe senza una mano, senza tutte e due?

E allora, basta con la lamentazione per il disagi, oltretutto temporaneo, via il tutore. Con un moderato approccio al dolore riprendo a usare le due mani sulla tastiera del pc, risparmio ai miei l’incombenza di tagliare per me la mela dell’ ‘una al giorno toglie il medico di torno’

È il giorno ventisei, quanti sono trascorsi dal momento della caduta, della caduta in avanti che la scienza di settore segnala  come la  causa più frequente di fratture della e spesso del carpo.  Tutto risolto? Quasi. Resta, anche se in sordina, una diffusa dolenzia del medio. Dicono che è normale.

Assolutamente anormale è altro: anche questa mattina, aperti gli occhi ancora parzialmente incollati dal sonno, la parola che si presenta come primo approccio al risveglio è “matusalemme” seguita dai primi versi di “Le mille bolle blu”, successo di Mina e subito dopo in noiosa successione la faccia indisponente di Poirot, un gol di Pelè, i ragazzi volontari accorsi nella Firenze alluvionata e meno male, anche l’immagine radiografica della mia frattura: forse posso disdire la seduta psicanalitica con il professor Asturi.

Sono innamorato? Quando Aleph, guardandomi con ironia lo ha pronosticato, ho reagito con l’espressione attonita di chi subisce perché indifeso, sorpreso, passivo, come mi era accaduto dodici anni prima, nella corsia di una clinica per soggetti irrecuperabili. Ciro, ho saputo molto tardi che si chiamava così, era in fase terminale di demenza. Mi spinse con violenza spalle al muro, le mani da spaccalegna intorno alla gola, gli occhi ridotti a feritoie piantati nei miei, dilatati. Ero stupito, disorientato, ma non impaurito. La lunga frequentazione dell’ospedale psichiatrico dove Basaglia ha lottato per abolire i lager dove i ‘matti’ erano rinchiusi, picchiati e riempiti di piscofarmaci, da Gorizia a Palermo, mi ha insegnato a governare senza perdere il controllo situazioni di emergenza ma prive di pericolo reale. Chissà, alla così lunga distanza di tempo forse è arrivato il momento di riconoscere che la quota alienante del lavoro con i ‘malati di mente’ lascia tracce anche nella testa di chi li assiste.

Aleph è un concentrato di simpatia amabilmente ‘aggressiva’. Ha imparato presto a cavarsela. Un raid dell’Isis è costato la vita all’intera famiglia. Si è salvato solo per l’abitudine di trascorrere il fine settimana in campagna dei nonni paterni. È diventato presto un abile ambulante, tramite con chi li apprezza degli artigiani del legno, che scolpiscono facce e corpi di antichi abitanti del luogo come li hanno descritti i graffiti nelle caverne ritrovate ai piedi delle montagne che incombono sul villaggio di Mehilan.

Compiuti i vent’anni, Aleph ha investito tutti risparmi in un ticket di sola andata per il volo con scalo a Francoforte e destinazione finale Londra Gatwick. La tenacia è una sua dote riconosciuta, non congenita, originata dalla fatica di sopravvivere nel suo mondo ostile, senza protezione dopo la morte dei nonni.

Cameriere in un pub di periferia, lavapiatti, tuttofare servizievole per una catena di negozi in pieno centro, massaggiatore nella Spa di un albergo di seconda categoria, avendo fatto credere di aver imparato lo shatsu da una esperta del Nepal, di nuovo ambulante nei pressi di Hyde Pard, con il suo banchetto di attrazioni per i bambini.

La polizia mette fine all’attività commerciale di Aleph, priva di licenza, ma non per molto. Un connazionale, conosciuto in pizzeria, apre un porno shop nelle strade adiacenti di Piccadilly Circus e ha difficoltà nell’ assumere un addetto alle vendite per la natura del market.

“E tu, anche tu ti vergogni?”

C’è da smarrirsi in questo bazar frequentato da ‘clienti’ habitué, ma per la maggior parte in larga misura avventori ‘una tantum’, che entrano con evidente disagio, si muovono impacciati e accettano come una liberazione il tono disinvolto, garbato del personale addetto alle vendite

Ci capito per curiosità. In albergo, prima di addormentarmi, ho seguito in televisione un programma di seconda serata che ha censurato l’ipocrisia del tabu, diffuso a tutte le latitudini, comune a tanti che giudicano la masturbazione una pratica di cui vergognarsi e così si privano di un rapporto compiuto con il proprio corpo. L’altro estremo è l’industria del porno, che lucra su un mondo in cui convivono pulsioni normali, fisiologiche, patologie sessuali, deviazioni, morbosità. La privazione dell’erotismo diventa patologia, spesso grave. L’ho verificato a suo tempo con i ‘malati di mente’ privati della sessualità e sedati con farmaci specifici per reprimere l’aggressività tra pazienti di sesso opposto.

Aleph è un abile cicerone. Si destreggia a suo agio tra vibratori di ogni tipo, video hard, oggetti per amanti del sadomaso.

Mi coglie di sorpresa il mancato distacco da questo armamentario per tutti i gusti e le varianti dell’eros, ma non è il limite dello sconcerto per questo selfie introspettivo. Lo è, anche di più, la consapevolezza di un’incontrollata eccitazione indotta dalle immagini molto esplicite di un video che il negozio trasmette full time grazie a un dispositivo automatico di replay.

Aleph lo capisce, abituato leggere le comunicazioni non verbali di clienti molto particolari dal respiro accelerato, gocce di sudore sulla fronte e posture del corpo per nulla che mutano per impercettibili movimenti dei piedi.

“Dottore, c’è qualcosa che l’interessa?”

“Proprio non credo, sono entrato solo per capire cosa attrae tante persone”

“Non direi. L’impressione è che tanta gente fa ricorso a questo surrogato della sessualità fisiologica per carenze di natura piscologica. Mi sembra di essere nel regno dell’immaginario, ma patologico”.

“Insomma il suo è interesse professionale?”

“Sì…onestamente? Non solo. È un mondo che ho tenuto ai margini del lavoro di psichiatra e del mio io, sbagliando”.

“Allora mi permetto di mostrarle un ‘gioiello’ di questo particolare mercato. Venga, l’accompagno nella stanza alle spalle del negozio, dove facciamo entrare solo qualche cliente speciale”.

“Dottore le presento Ofelia, bella no?”

“Prema sul pulsante di questo telecomando e le chieda qualcosa”

La voce della ragazza robot è calda, ma incerta.

“Cammina, si muove con incredibile naturalezza. Dica se Ofelia non è proprio attraente. Ha un viso dall’ovale perfetto e lineamenti da statua di Canova, il corpo è armonico come quello di un’indossatrice. Le accarezzi le mani…”

La risposta di Ofelia quasi mi fa dimenticare di essere di fronte a una giovane donna bionica.

“Vada oltre. Provi a spogliarla”.

La perfezione dei dettagli è stupefacente”

“Anche la carica erotica di questo corpo disegnato in tuti i suoi dettagli compreso il sesso, i seni. Che ne dice dottore?”

“Che forse ho scoperto come riempire la solitudine di una casa da single. Proverò ad arricchire il bagaglio linguistico di Ofelia che potrà elaborare con la sua sofisticata intelligenza artificiale”.

“Capisco bene, vuole portarsi a casa Ofelia?”

In poltrona, gambe accavallate, gonna generosamente mini, Ofelia sembra che mi guardi con affetto, riconoscente per averla sottratta alle occhiate di persone sgradevoli. Ha fatto progressi e finisco per parlarle come farei con una persona in carne e ossa fuori di testa azzardo un incredibile “Mi ami?”

Mi sbaglio sicuramente, ma sembra che Ofelia arrossisca

Evocato al tavolo di una riuscita seduta spiritica il sommo Dante si è adoperato con lodevole abnegazione per collocare discussi esponenti del terzo millennio in una delle corone circolari in cui ha suddiviso il suo Inferno.

Gli chiede la medium: “Dove collocherebbe Donaldo Trump, Putin Netanjau, Erdogan, Orban, i cardinali pedofili, i ladri di Stato, Salvini, Le Pen il presidente brasiliano, chi tortura i migranti, chi li sfrutta come schiavi, chi inquina il pianeta, eccetera, eccetera”. L’Alighieri, in assenza del suo dotto compagno di viaggio nella Commedia Divina, sembra smarrito, incerto, perplesso. Cogita, aggira l’ostacolo dell’incertezza e stupisce i partecipanti alla seduta: “Ho provato, credetemi, ho esplorato una ad una le possibilità di smistare nei nove gironi della mia prima cantica i tipi da voi indicati come meritevoli di bruciare tra le loro fiamme e qualche soluzione l’avrei anche trovata, ma parziale, non compiutamente esaustiva.

“Lo vedrei bene nella quinta e settima corona, dove scontano pesanti condanne iracondi e accidiosi, violenti, omicidi, bestemmiatori, fraudolenti, ipocriti e ladri, seminatori di discordia, falsari…ma non ne sono completamente certo.

“Penso ai reati di razzismo, omofobia, fascismo”

“Vero, lei non lo aveva previsto nel 1.200. Allora, dove? “Non mi resta che inventare un nuovo girone, il decimo”

“Dunque, questa corona la immagino ampia abbastanza per contenere non meno di mille africani, uomini, donne, bambini finiti in fondo al Mediterraneo, vittime di respingimenti disumani e altre vittime di violenze alle prese con gli sciacalli che lucrano sulla disperazione dei migranti e li espongono alle insidie del mare in condizioni di estremo pericolo, con i giustizieri della notte, che tutelati da leggi discutibili, uccidono sparando alle spalle dei ladri, con i violenti che infieriscono con ignobile bullismo su deboli e indifesi, con il numero uno di questa bolgia infernale, indegno ex ministro dell’Interno, tutti sottoposti al giudizio delle loro vittime, che invitate a una breve trasferta dal paradiso dove abitano felicemente sono chiamate a processare la feccia qui descritta”

“Ha pensato anche alla punizione da infliggere a conclusione del dibattimento?”

“Ma certo. Dopo l’arringa dell’accusa, affidata alla donna nigeriana morta stringendo a sé la sua bambina mentre le ghermiva il fondo del mare, i tipo in questione e i suoi simili dovranno provare ad attraversare a nuoto e senza muta il Mediterraneo, dalla sponda africana all’isola di Lampedusa. Dall’al di là, sul drone che porta in volo gli angeli da un punto all’altro dell’empireo, le vittime saranno spettatrici dell’impossibile impresa”.

“Profitterò della sua generosa disponibilità. Pensa di poter influire sulla sentenza che deciderà il futuro prossimo del tycoon che abita nella casa Bianca?”

“Temo di no. Ho consapevolezza che gli esseri umani esercitano il libero arbitrio, nel caso in questione il Senato a maggioranza repubblicana, ma posso progettare la strategia in grado di condizionare il futuro remoto del presidente americano”

“Lo farò accompagnare da Belzebù nel girone delle ‘malebolge’, l’ottavo, dove i fraudolenti scontano tra le fiamme la grave colpa di agire, operare e carpire fraudolentemente la buona fede altrui. Mentre proverà a evitare le fiamme guizzanti del girone, i diavoli tele operatori proietteranno su schermo gigante il crollo totale del muro eretto al confine con il Messico, mentre un milione di emigranti entrano negli Stati Uniti.”

“Non è poco, ma ho in testa un dispetto supplementare che mi ‘diverte’ e molto: chiederò alla ‘beata’ ospitee del paradiso, che in vita ha lavorato da parrucchiera, di tagliare di netto il ciuffo posticcio color carota che troneggia sulla sua testa”

“Rivelerò finalmente cosa contiene la Coca Cola, regalerò la ‘ricetta’ ai poveri del Bangladesh e fornirò loro l’apparecchiatura per prepararla e metterla in vendita in tutto il mondo a prezzi molto competitivi”

“Per fare tutto questo deve risorgere….”

“Non credo. Mi verrà qualche altra idea. Trump stimola la mia già fertile creatività”.

“So di chiederle molto, con tutto il da fare alle prese con la scrittura poetica, ma un pensiero per la destra ‘nostalgica’ del ventennio, no ?”

“Non mi posso esimere e non devo sforzarmi per inventare. Un’occhiata all’ottavo girone soddisfa il lavoro di indagine per capire dove collocare la Meloni per il tempo necessario a pentirsi di aver goduto dell’alleanza con l’estrema destra neofascista”.

“Compirò il miracolo di eleggerla con ordinanza ultraterrena a guida dotta, ben informata e storicamente colta, per assolvere il compito per lei sicuramente ingrato di accompagnare i discendenti delle vittime dell’olocausto ad Auschwitz e di ricordare senza nascondere nulla le responsabilità dei nazifascisti nella strage di sei milioni di ebrei”.

“Un ultimo atto di disponibilità, da sommo poeta qua è. Un maledetto pool di potenti del mondo attenta alla salute del pianeta Terra, per colpa del micidiale egoismo che antepone il profitto al bene dell’umanità. Che fare?”

“Richiesta impegnativa. Chi detiene il possesso delle fonti di energia che avvelena l’atmosfera è un fiero esponente del negazionismo. Finge di ignorare gli sconvolgimenti climatici all’origine di alluvioni, incendi , morti e comunità che perdono ogni cosa. Impegnerò inviati speciali che stazionano nel purgatorio in attesa di espiare completamente la pena nel compito di prosciugare i giacimenti di petrolio, invierò truppe celesti, paradisiache dotate di strumenti idonei ai poli, per restituire ai ghiacciai il loro ruolo di equilibratori del clima e indurre i potenti del mondo a produrre solo energia pulita e rinunciare a profitti illeciti. Scalerò la scala miracolosa che conduce al Paradiso mano nella mano con Greta Thunderg, per tutelare con la benedizione divina la sua autorevolezza in grado di imporre il prezioso lavoro teso al rinsavimento dell’umanità”.

Mila Forlanini, medium per passione, paga con un’ overdose di stress la tensione della seduta spiritica. L’accoglie il divano con la prolunga per stendere le gambe e rilassarsi completamente. “Tan, ta , tan, tatatan…”, la sigla del Tg1, uguale a stessa da sessant’anni, la voce familiare del conduttore Giorgino: “Non ha fine la tragedia dell’Australia che brucia, ma gli scettici che tutelano interessi miliardari negano la responsabilità delle emissioni a cui si devono contemporaneamente siccità e alluvioni disastrose”… “Trump ha smentito protervamente il grido d’allarme di Greta Thunberg, senza mai citare il suo nome”… “Un devastante ciclone sconvolge l’Inghilterra, dopo un periodo di temperature invernali anomale, molto al di sopra alle medie da cento anni in qua”…

Pensiero della sera: altro che sedute medianiche e interventi divini. La nostra palla, che gira su se stessa, microscopica nell’immensità dell’Universo, è stritolata dalle mani avide dei grandi inquinatori. La sola  speranza è nella determinazione di Greta e dei milioni di suoi follower, perché riesca a realizzare la terza rivoluzione, questa volta ambientale, pacifica, risolutrice. Utopia? Può darsi, ma augurarselo non costa niente.

la presente per comunicarle la rescissione a partire da oggi 1 Gennaio 2020 del contratto di lavoro con la nostra azienda per fine attività. L’ ufficio amministrativo è sua disposizione per le pratiche inerenti alla liquidazione. Distinti saluti

Eshe mi consegna al marito la lettera appena ricevuta dal portiere insieme agli auguri di buon anno e i ringraziamenti per l’attesa regalia. Il licenziamento non è un fulmine a ciel sereno. La fabbrica ha perso la quasi totalità delle commesse, strappate con costi molto competitivi dai cinesi e da mesi ricevere il salario ha richiesto scioperi a oltranza.

[Ma porca miseria, proprio oggi? Cenone, razzi e bengala, lo spumante di mezzanotte, gli auguri di buon futuro, il messaggio ai miei vecchi, a Kajo Keji, laggiù, nel sud Sudan oppresso dalla tirannia di Al Bashir, responsabile di un regime corrotto che ha annullato ogni libertà e soffocato nel sangue il dissenso. Il bilancio degli scontri : 300.000 morti e 2 milioni e mezzo di sfollati].

“Eshe, che faremo? Che ne sarà di noi, dei nostri figli, della nostra vita? Ma ti ricordi, te l’ho raccontato quando ti conosciuto nel centro di accoglienza di Lampedusa: eri sotto choc, spaventata, scheletrita, come me. Come sono rimasto in vita non me lo sono mai spiegato. Dall’inferno del Sudan mi ha spinto a fuggire mia madre. Avevo appena compiuto dodici anni. Nello zaino qualcosa da mangiare, una borraccia d’acqua, una maglia di lana fatta da mamma, mille dollari messi insieme con la vendita di parte del suo corredo, mai usato, e di una delle due mucche superstiti di una micidiale epidemia. Ho attraversato il Paese con mille espedienti, ho fatto decine di piccoli lavori per procurarmi da mangiare, ho viaggiato per giorni e giorni con l’autostop su camion, ma per lo più a piedi. Il peggio è stato attraversare il deserto libico. Non finiva mai e sarei morto di sete senza l’aiuto di un carovaniere che mi ha riempito d’acqua la borraccia. Mi sono riposato per due giorni nelle oasi a sud della Libia e quando finalmente ho visto Tripoli in lontananza, sono stato catturato da trafficanti di uomini. Segregato per due mesi in un carcere lager ho subito violenze e torture. Ho convinto uno degli aguzzini a farmi partire su un gommone con i mille dollari conservati per lasciare l’Africa. Il mare, all’improvviso si è incattivito e una decina di migranti sono finiti in acqua, senza scampo. Faceva un freddo cane. Sono spariti anche un neonato e suo padre che ha tentato di salvarlo. Le onde sono diventate gigantesche, il gommone è stato sommerso dal mare, mi sono ritrovato in acqua a lottare per tenere la testa fuori. Due braccia muscolose strette intorno alla vita e alla testa, mi hanno trascinato fino a una nave. Sulla prua la scritta SEA WATCH. Vita infernale a bordo: sdraiato in terra, coperto da fogli termici, giorni e giorni di insopportabili disagi. Accanto a me un uomo e una donna abbracciati, ammalati, l’attesa angosciosa di scendere a terra, i sorrisi della capitana, il tè caldo, qualcosa da mangiare. Riesco a lasciare il centro di prima accoglienza di Lampedusa, dove il medico cura i mei piedi feriti da marce di mesi. Di notte scappo. Al porto, mi infilo nello spazio minimo tra le merci stivate in un tir. Con me ho la borraccia, un pezzo di pane e una mela che ho portato via dalla mensa. Alla guida del Tir, lo capisco dalle voci che mi arrivano tra la merce trasportata, si alternano due autisti. Con una sola sosta in autostrada, il tir entra in Roma. Scendo e non so che fare. Cammino senza capire dove sono, per ore. Leggo la targa all’angolo della strada. Piazza Sant’Egidio e al numero 3/a C omunità di Sant’Egidio. Un tipo ben vestito mi avvicina: “Che ci fai qua, da dove vieni?” Non capisco. Mi mette una mano sulla spalla e mi guida all’interno del palazzo. Rispondo a un ragazzo africano, avrà una ventina di anni.

Dopo un anno di ‘clandestinità’, con la mediazione di un emissario del Vaticano, vengo accolto da una famiglia romana senza figli. Non è un’adozione, l’iniziativa di Mario e Flora Cecchetti è ‘fuorilegge’, ma ha trovato una famiglia. Mi insegnano l’italiano e scoprono che ho una buona manualità. Non esco quasi mai di casa, per non rischiare di essere separato dai miei nuovi genitori. Quanto tempo con loro: anni e anni, fino ai diciotto, quando Mario mi ‘regolarizza’ e mi trova lavoro, in una fabbrica di accessori per auto. Mi piace la fabbrica. Ti ricordi quando ti ho detto “Ci sposiamo, quando dopo un anno mi hai detto “Aspetto un bambino” e dopo ventuno mesi “Ne aspettiamo un altro?”

“Hamidi, e adesso? C’è il mutuo della casa da pagare, per i ragazzi comincia la scuola, ci sono i libri da comprare, hanno bisogno di scarpe, cappotti, scade l’assicurazione della macchina, dobbiamo pagare le tasse…” “Usiamo la mia liquidazione” “E poi?” “Poi dio ci pensa” “Mi sa che dio ha altro a cui pensare. Vai da don Piero, raccontagli del licenziamento, chiedigli se può aiutarti a trovarne un altro”

Mesi e mesi. Corrono via senza esito nella ricerca di un lavoro. S’incrinano i rapporti con Eshe, la tensione trova sfogo i litigi sempre più aspri. Diventa un’impresa tirare avanti senza il salario di Hamidi, che si arrangia con qualche lavoro saltuario, ma è costretto a far debiti.

Rientra per l’ora di pranzo, un largo cerotto sulla fronte, un occhio semichiuso, tracce di sangue sul giaccone.

“Che diavolo ti è successo?” “Quel figlio di puttana dell’usurario. Un suo scagnozzo mi ha aggredito e ha detto che è solo un assaggio di quello he mi capiterà se non chiudo il debito che ho accumulato”.

Partono, Eshe e i due ragazzi. Il volo, pagato con quanto è rimasto dell’ultimo lavoretto di Hamidi, è la fine di un rapporto che Eshe ha prima esasperato e poi trasformato in lite furibonda, fino e decidere di tornare in Sudan, dove la famiglia vive di agricoltura e non ha mai approvato la decisione di cercare fortuna in Europa. Tanto meno di sposare Hamidi.

L’ufficiale giudiziario si presenta scortato da due agenti del commissariato. L’ordinanza dello sfratto è immediatamente esecutiva. Poco dopo un altro inviato esegue il mandato del tribunale di pignoramento di mobili e quadri e la casa somiglia a un contenitore, una scatola vuota. Hamidi diventa fisicamente irriconoscibile. Dimagrito, invecchiato, capelli e barba lunghi, vestiti malandati. Dorme in un angolo della stazione Tiburtina.

All’ora del pranzo è in fila con i clochard alla mensa della Charitas. Oggi fa visita al refettorio il responsabile della Comunità di Sant’Egdio. Hamidi lascia a metà il piatto di pasta e si avvia all’uscita per non farsi vedere, ma Vincenzo Avitabile, di Sant’Egidio lo riconosce.

“Non stare a testa bassa. Cos’è successo? Vieni in Comunità, ti aspetto”.

I volontari della Charitas sia avvicinano all’uomo disteso in terra su un cartone per dargli un tè caldo. “Ragazzi, non respira. Deve averlo ucciso il freddo ”. Nella mano gelata l’uomo stringe un vecchio portafoglio che ha visto tempi migliori. “Ha la patente, è intesta a Hamidi Balewa”.

Lo avevo voluto così: un asse largo 60 centimetri, lungo tre metri, fissato a tre solidi cavalletti, distanziati quanto bastava per infilare comodamente al di sotto le due poltroncine da regista più alte del normale, perché a misura della migliore  posizione  per lavorare molte ore al computer senza anchilosare la spina dorsale. Ora lo spazio che ha ospitato disordinatamente  – ma non per me – quanto è servito per la scrittura e il disegno, è un ingombro informe di oggetti che raccontano anni di lavoro creativo. [Ma quante penne ho  accumulato e  pennarelli, matite, gessetti, graffette?. Toh…mica mi  ricordavo di avere una spillatrice da legno, due serie di giraviti a stella, etichette di ogni dimensione, una collezione di etichette, ganci da cornici, barattoli d’inchiostro, una cartella intonsa di carta copiativa, pacchi interi di indirizzi e mail per inviti alla presentazione dei miei libri, di mostre personali e collettive;  contenitori che scoppiano, pieni di recensioni,  scatole delle scarpe con la scritta frettolosa che indica il contenuto di documenti delle figlie, le loro pagelle, i  certificati di vaccinazione, le cartoline ricevute da mezzo mondo]. In bilico ai margini dell’asse, la struttura leggera di un mini ventilatore da pc, regalo natalizio, quattro pacchetti non aperti di carte da gioco francesi. Impilati in un cumulo alto mezzo metro trecento (trecento?) disegni in bianco e nero e a colori non selezionati per l’ipotesi velleitaria di una ‘personale’ che non promuovo, nonostante le sollecitazioni di un amico critico. Forse i cartoni recuperati al supermercato non basteranno  a contenere questo ‘ben di dio’ e tanto altro, ma ci provo. 

Sul desktop del Sony l’immagine del borgo San Vito è suggestiva, irresistibile. Sulla destra del castello spicca ben visibile il bianco accecante della casa esposta a mezzogiorno, comprata con un euro. L’ho appena ristrutturata con ventimila euro, utilizzando il progetto donato dal sindaco come ‘benvenuto’ ai nuovi abitanti e io lo sono. 

C’è tensione in casa, Elena non ha condiviso l’‘azzardo’ di investire in uno dei mille paesi italiani spopolati nel giro di pochi anni, dove hanno resistito per ragioni anagrafiche solo vecchi contadini e qualche pensionato, dove la scuola elementare ha chiuso per mancanza di scolari, dove alla domenica non arriva più il camioncino di Tiziano che portava con sé la pizza di vecchi film in bianco  e nero, noleggiati  per poche lire in magazzini polverosi, dove il mercato itinerante è diventato un labile ricordo di tempi migliori. La prospettiva di lasciare il caos della città mi regala l’idea di serenità, compatibile con il futuro che ho ipotizzato per uscire dallo stress quotidiano della professione-mestiere di giornalista e di  incursioni nell’impegnativo territorio della scrittura creativa, della pittura. Mi acquieta pensarmi a San Vito, in quella casa coloniale che s’affaccia sulla valle dominata da monti maestosi, priva  di audio, o meglio accarezzata dal frusciare dell’acqua di un ruscello e brevi scrosci provocati da piccoli sbalzi di cascatelle mai in secca. [Non c’è di meglio al mondo per trasportare i suggerimenti della creatività nello scrigno delle parole, di  segni e colori che ‘sporcano’ artisticamente fogli e tele]

§ Elena: “Caro mio, pensi sono a te stesso, ai tuoi spazi, a come ottimizzarli, ad aumentare l’autostima di cui ti nutri da sempre. Vai pure a San Vito, a scrivere, dipingere, chiacchierare al ‘Bar  Sport’ con i vecchietti del posto, davanti a un ‘caffè Borghetti’, a un ‘Vecchia Romagna Buton’. Bestemmia come loro per gli errori del tuo compagno di scopone,  vai a letto con le galline e svegliati all’alba, esplora uno a uno i sentieri intorno al borgo, puoi trarne ispirazione per i tuoi racconti. E io? Lavorerò all’uncinetto, curerò le piante di basilico e rosmarino, mi specializzerò in cucina sanvitiana, eviterò la depressione appassionandomi alle vicende del ‘Paradiso delle signore?  Farò amicizia con Luisa, l’ostetrica ottantenne disoccupata da vent’anni perché qui nessuno è nella condizione anagrafica per fare figli? Fai un po’ come ti pare, finisci in quell’eremo senza vita, ma se pensi che ti segua…Io resto qui, in piazza Cavour, nel bel mezzo del casino di una città simbolo di caos, zero regole, chiasso, disagi di ogni genere, ma cavolo…viva, pulsante, coinvolgente”. 

Ha le sue ragioni Elena, tutte le ragioni del mondo, ma la nostra incompatibilità è cosa di vecchia data. Ah l’amore, quanti e quali inganni ha in serbo quando l’incontrarsi addormenta le consapevolezze di diversità tanto distanti da pronosticare con certezza future fratture…

Con Elena è andata esattamente così. Ho fatto tesoro di origini familiari dove si parla la lingua di Dante e del rigore  paterno che non l’ha imbastardita con inflessioni e accenti del sud che ci ha accolti. Mi prende in giro un mitico scrittore,  per nulla interessato alla buona dizione, del tutto indifferente ai dittonghi da pronunciare con la seconda vocale ‘aperta’, agli avverbi come dolcemente con le due “e” strette. Scrive sul quotidiano locale che la mia conduzione del Tg è toscaneggiainte. 

“Organizzo un corso di giornalismo”, mi dice Antonella, “vuoi insegnare dizione?” 

Impossibile  non incontrare gli occhi di questa allieva, che giovane liceale non è. Non avrà meno di 25anni e il suo sguardo è di quelli che oltrepassano il cristallino. Bravo, mi complimento con me stesso per aver accettato l’invito di Antonella. 

“Segreto…lo so e basta”

Ci vado a letto, prima ancora di sapere se è cattolica o atea, cosa pensa di razzismo e omofobia, di  Israele e Palestina, di Umberto Eco e Steven King, di Mssi e Ronaldo, del capitalismo, di mutamenti climatici, della satira. Mi piace da morire il suo sorriso, come fa l’amore, che non mi ha chiesto se l’amo o peggio, quanto l’amo, se mi piacciono i bambini, a che età sono andato a letto con una donna e se  il  Robert della fiction che segue da tre anni sposerà Ellen. 

“Ci sposiamo sabato 26 marzo, nella Chiesa dell’Addolorata e subito voliamo alle Seychelles.” Firmato Elena. 

Risposta incosciente dal punto di vista dell’autodeterminazione. Il poi era  prevedibile. Il mio lavoro, gli effetti secondari che l’accompagnano, i libri che scrivo, la pittura che evolve, la carriera in progress che mi arruola nel club dell’intellettualità operativa, aprono un solco profondo con la vita banale della mia compagna, con il cerchio magico in cui si muove fra tornei di burraco, shopping  pressoché quotidiano nei mercatini delle ‘pezze’ a dieci euro, i week end agostani ad Anacapri, ospite di Lalla, moglie demotivata e falso snob di un immobiliarista straricco quanto corrotto. 

Trasciniamo il rapporto su percorsi paralleli che non s’incontrano se non a letto, perché scopare scopiamo ancora come si deve.

Dimentico il cellulare su comodino, Elena non  resiste alla curiosità di entrarci e legge:. 

‘Message’:Marco domani nonposso. Mio marito è tornato prima da Milano, ma riparte già domani alleude scusa, alle due. vieni dopo il Tg. ti ammo – – ti amo.

La stradina, che s’inerpica per aggredire il senso unico che circonda il borgo, è malandata, con piccoli dossi da mancata manutanzione, pietrisco che fa stridere le ruote, percorsa con molta cautela, priva com’è di protezioni laterali. La casa sa di muffa [dovrò procurarmi un deumidificatore] ma è già mia: prima di ogni altra cosa accendo il computer, clicco su world e mi rendo conto che il mio ‘Apple’ ha già dato: è lento da far saltare i nervi. Si spegne prima ancor di presentarmi la pagina dove ho in animo di raccontare con molte varianti la mia disavventura matrimoniale. Il default si deve all’esaurimento totale della batteria e con il cavo non collegato al modem. Così il pc diventa buio e  rianimarlo è cosa da esperti. Qui a San Vito c’è solo un ragazzo con competenze adeguate, ma è andato in città dalla fidanzata. 

Al ‘Bar Sport’ Alvaro, Peppe e Giovanni mi accolgono con insolito entusiasmo: sono il quarto per lo scopone. In palio per i vincitori, una bottiglia da ¾ di birra artigianale prodotta nel paese confinante. 

Arriva dall’est, più gelida della tramontana, a velocità che declassa la bora a brezza lieve. Ha spessore mimino la neve caduta in una delle notti rigide dell’Aquila che obbligano a tirar via dall’armadio una coperta di morbida lana per poggiarla sul piumone e accrescere il suo caldo comfort. Alle nostre spalle c’è una giornata impegnativa, spesa per strappare l’impegno del ministro delle infrastrutture, e suo tramite il governo, ad accelerare gli interventi di ripristino del volto della città deturpata dal sisma. Il tepore della sala comunale dove si è svolto il non facile confronto sul futuro dell’Aquila si è dissolto in fretta nel percorso per raggiungere casa. È un’impresa rimanere in piedi sulle mattonelle ghiacciate del marciapiedi e più volte Lisa si è aggrappata a me per non finire a terra. A mia volta ho rischiato di perdere l’equilibrio.

“Lisa, hai tu le chiavi di casa, fa’ presto, apri, che stiamo congelando…”

“Sei il solito smemorato, le chiavi le hai tu…”

“Va bene, hai ragione. Uno a zero per te, apro io…”

“Silvio, mi dio, ti sei fatto male?”

“Credo di essermi fratturato una mano…ma tu chi sei?”

“Come chi sono? Ma sei scemo? Perdi sangue dalla testa…fammi vedere…”

La ferita non è ampia, ma sembra profonda. È impressionante il fiotto di sangue che corre lungo il collo e si estende in una larga macchia sulla spalla e il petto. Silvio è inciampato nello scalino coperto da una lastra di ghiaccio

Il primo soccorso lo presta una giovane dottoressa sul lettino dell’ambulanza del 118 che si dirige velocemente all’Ospedale Civile. L’espressione preoccupata dell’infermiere che l’affianca accresce l’ansia per le condizioni del mio compagno e quel suo incomprensibile ‘ma tu chi sei’ che mi ha rivolto dopo la caduta. È un timore condiviso dal medico:

“Come si chiama il ferito?”

“Signor Silvio, le fa male la testa?”

“Dove mi trovo e voi chi siete?”

“Si è ferito, stiamo andando all’ospedale…Conosce questa persona, è la sua compagna…”

“Ferito, io? No. Non so chi sia questa donna. E io, chi sono?”

“Dottore, questo paziente è caduto e si è ferito. Sembra che abbia perso la memoria”

“Facciamo subito una risonanza magnetica e intanto saturiamo la ferita”

La memoria torna improvvisamente. Gli specialisti sanno che è possibile, dopo il ‘vuoto’ immediatamente successivo al trauma.

[Sai che c’è di nuovo? Ora mi diverto a fingere di essere ancora smemorato.]

Fortunatamente l’esito dell’esame radiografico è negativo e mi affidano alla consulenza di un neurologo.

“Silvio, proviamo a capire se riesce a ricordare qualcosa. Quanti anni ha?”

“Lei sa chi è il presidente degli Stati Uniti?”

“Stati Uniti? Non so di che parla” (So bene di che parli, ma mi piacerebbe ignorare l’esistenza di quel cialtrone)

“Si ricorda di un leader politico italiano?

“???” (Vediamo, Salvini? Spero che le sardine lo azzerino. Di Maio? Se continua così fa sparire i 5Stelle. Renzi? Grande affabulatore, peccato che sia sulla strada di un copia-incolla della defunta Dc. Zingaretti? Meglio testimonial di un nuovo dentifricio che capo della sinistra. Sorride anche se gli è morto il gatto di casa. La Meloni, a quando nuove nozze con un nostalgico del ‘Ventennio’? E Conte? È l’identikit del brav’uomo medio. Gli manca solo di cantare ‘Sono un italiano’ di Toto Cutugno).

“Silvio qual è il numero del suo cellulare?

“Silvio, le dico ‘sapone, marmellata, drone, squalo, pettine’. Ripeta….

“Pane, barca…” (A proposito da questo momento posso fingere di non ricordare l’anniversario del fidanzamento con Lisa, che non si fa la scarpetta con il sugo di ragù, che non si dice strega parlando di mia suocera)

La diagnosi dell’ospedale: “Il paziente Silvio di Nardo è affetto da disturbo della memoria probabilmente temporaneo, conseguenza di una ferita alla testa. A domande personali e di carattere generale non ha fornito alcuna risposta (‘orientamento rispetto a tempo, spazio e persone, sul luogo in cui ci si trova’).

Lisa ha qualche sospetto, conosce a fondo il compagno e interpreta le comunicazioni non verbali da minimi segnali del volto. [È una furbizia la sua, non ha perso la memoria].

Al posto suo cosa fingerei di non ricordare? Ma sì: di tanto in tanto riprovo la vergogna per aver accusato mio fratello, quando non era ancora in grado di smentirmi, di aver fatto fuori un intero barattolo di crema di cioccolato svuotato ingordamente da me. Non mi sono mai assolta della bugia inventata per non ammettere con i miei genitori di essere stata coinvolta da un mio boy friend nella visione di un porno quando avevo solo tredici anni. Peggio, ho nascosto a Silvio la sbandata di un anno fa, quando sono andata a letto con un collega della scuola dove insegno. A suo tempo ho raccontato ai miei genitori di aver rivisto il mitico film “Via col vento” e a Silvio ho spacciato l’assenza notturna con la generosa assistenza a una vecchia zia povera, gravemente ammalata e senza parenti.

Garrone, geniale regista di una nuova trasposizione cinematografica di Pinocchio, secondo libro al mondo per vendite dopo al Bibbia, potrebbe immaginare un second time, a una nuova serie ispirata dal mitico personaggio di Collodi. Dovrebbero solo presentargli i Silvio, la Lisa o, anche meglio, una manciata di politici del mondo, perché no italiani. I in particolare di chi fa campagna elettorale mentendo sull’aumento degli sbarchi di migranti, che sono nettamente diminuiti e inventa aggravi fiscali che sono invece meno onerosi.

Raccontata ai bambini, la vicenda delle menzogne di concluderebbe con la rituale morale della favola: “Siamo quasi tutti Pinocchio”.

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ARCHIVIO - GLI IMPERDIBILI : il libro rivelazione su Antonio Di Pietro pubblicato in allegato alla Voce della Campania nel novembre 2003

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